Maggio 2024, Chiaromonte e le sue Storie dedica il mese ai lavoratori Chiaromontesi

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Zi Ndonio u Parent

Di Pinuccio Armenti

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nota: in questa storia non ho apportato alcuna correzione nelle parole in dialetto.
Pinuccio manca dal paese da sessant'anni, e desidero che tutti voi siate testimoni del suo amore immutato verso il nostro paese, il più bello del mondo.


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U Parent con la famiglia. Il primo a sinistra.


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Carissimi compaesani e amici di Chiaromonte.
Questa volta vorrei parlarvi di una persona a me molto cara. Certo, non ha fatto la storia di Chiaromonte, però è rimasta nella memoria di molti Chiramontesi.
Si tratta di zi Ndonio u Parent.
Io ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia povera, ma molto allegra.
Educata verso il prossimo e allo stesso tempo molto giuliva.
Mia nonna, Maria De Salvo, chiamata da tutti i paesani zia Mariuccia, era molto benvoluta.
Era una persona buona come il pane e cosi educata che a noi nipoti ci parlava dandoci del " signiria". Quando veniva o andava da qualcuno bussava alla porta e chiedevano o chiedevamo : " chi è? Lei rispondeva : una serva . Pensate che umilta'.
Ebbene la mia nonna aveva 3 fratelli, Antonio, Pietro e Giovanni ed una sorella Rosina anche lei buonissima di animo sposata con Giovanni Cafarell .
Loro faceveno i furese a Don Fabio alla Massaria dei Dolcetti.
Però io voglio parlare dei fratelli Zi Ndonio u parent.

Uomo nato la fine dell'800.
Io lo ricordo, avevo 3 anni e ho avuto la fortuna di vivere con lui fino a quando avevo 13, 14 anni.
Lui a aveva già una 70ina di anni.
Non tanto alto, magro, ma muscoloso. Il suo viso già segnato da tante rughe, un bel paia di baffi ndurciglietcome si usavano allora. Sotto quei baffi un sorriso sornione quasi fissiatore.
Abitava alla Chiusa, una contrada di campagna più sotto di Sant Uopo.
Li aveva una casetta e il suo lavoro. Lui faceva il Fornaciaro. Non so se in italiano si dica cosi. Lui faceva mattoni di creta, di tanti tipi e grandezze.
La sua specialità erano l'ermici per le case du pais nuost.
Io ricordo, avevo un 10ina di anni andavamo spesso alla Chiusa dove anche la nonna aveva nu casiniell. Non era grande, ma ci si poteva dormire. C'era un lettone dove potevano dormire 4,5 persone. Materasso? No ,nu saccon imbottito di paglia. Ohh !!! Come si durmie bell.
Il giorno andavamo per la campagna cercando ramaglie, piezz di legune per poter fare il fuoco pe fuche'.
A volte u zie mi faceva provare con la creta a fare dei mattoni.
Per lavarci ci buttavamo nella piscina. Poi la sera era bellissima. Si mangiava fuori nell'Aia.
Lo zio beveva volentieri nu bicchirucc di vino, poi pigliava l'organetto e allietava la serata con tarantelle e muntagnole sotto un cielo splendido ricoperto di stelle, e la luna piena era la nostra luce.
Quando veniva al paese era una festa. Tutta la gente che incontrava lo salutavano: buongiorno Pare'.
Lui era il parente di tutti. Tutti lo volevano bene.
Ormai aveva superato gli 80 anni.
I suoi passi si erano appesantiti.
Un giorno eravamo seduti vicino e lui mi disse una cosa che non ho mai dimenticato. Con voce un pò tremante mi disse: "Niputie' ti voglio dici na cose, quann e' gi muort i christien dirann: O cazz e' muort u parent”. E cosi' fu, 3 o 4 mesi dopo mori.
Ndu pais s'avie spars a voce. E come la voce passava da l'uno a l'altro dicevano: " Oh cazz!! E' muort u parent”.
Certo questa non e' proprio storia di Chiaromonte, ma una persona cosi non si dimentica facilmente .
Ora la famiglia di parenti e' quasi finita.
Un paia di nipoti ci sono ancora.
A Chiaromonte si ricorderanno sempre da famiglie du Parent.


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TIÈMBË DË PUÒRCHË

Di G.D. Amendolara
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Storia inserita in Archivio > Tradizioni






La depilazione del maiale.
Chiaromonte anni 60

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Questa storia contiene termini dialettali.
Alla fine del testo la traduzione dei termini incomprensibili.

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‘Nda së misë dë vièrnë Chiaromonte pareva u cambësàndë di puòrcë.
Gennaio, ma anche febbraio, il mese adatto per la macellazione del maiale, p’accìdë u puòrchë.
Alcuni provvedevano sotto Natale perché provvisti del posto adatto per poterlo curare e, magari, in questo mese macellavano il secondo, soprattutto nelle famiglie numerose.
Gli altri, i molti, attendevano febbraio, per l’appunto, pëcchè ièrë tièmbë dë puòrchë, e potevano curarli benissimo in casa, appìsë allu cëlëræsë.
Ne allevavano almeno uno a famiglia.


U sanapurcèllë in piazza mercato.
Anni 54/55.

Di solito li acquistavano alla fiera di Sant’Uopo o San Giovanni a Giugno, e a quella du Cataruòzzuwë a settembre li portavano a sanǽ, facendoli benedire da Sant’Antonio, anche se non era Abate, il santo raffigurato col maiale.


Uno degli ultimi maiali cresciuti in paese,
nel rione timpone.
Foto Giuseppe Comito. Prima metà anni 80


Un tempo chi viveva in paese, seppur proprietario di qualche piccolo pezzo di terra, oltre che galline, conigli, asini, pecore e capre, in casa, o ‘nda rullëcèllë, cresceva anche il maiale, e tutti i giorni lo si faceva pascolare pë ‘ndi strìttuwë.

Il giorno dell’uccisione, più che di lavoro, diveniva una vera e propria festa, nonché un rito che univa numerosi gruppi di persone, oltre che intere famiglie.
Prima che nasceva il sole, accendevano il fuoco posizionandovi na caudærë piena di acqua, così che, al momento della macellazione raggiungeva il bollore, così che li aiutava nella depilazione dell’animale.

Gli uomini provvedevano alla macellazione, senza margini di errore.
Le donne raccoglievano il sangue e davano una prima lavata agli intestini, e poi, tutti insieme, con l’acqua bollente, depilavano l’animale, senza buttare i peli, che sarebbero stati utilizzati o venduti.
A priesta matìnë avevano già concluso il primo passo.
Una volta sezionato in tre parti, potevano fare la colazione, e oltre ciò che avevano portato da casa, sul fuoco nella padella cuocevano u sànghëtièllë e un pezzetto di filetto, iuste pu buon augurië, e compariva il vino per far scendere il tutto… e per benedire.
Nel frattempo nelle case le donne avevano già preparato buffëttèllë, buffèttë, šcanatùrë, curtièllë, zaccurævë, spæchë, machënèttë, zafarænë pësætë, sælë, pèpë, acìtë, lëmunë, përtëgàllë, mësælë, mappìnë, struòglië p’annëttǽ, angun’atu cundë e… o furcìnë.




Una forchetta utilizzata per forare gli intestini.
Questa appartiene alla famiglia Paradiso,
ereditata da mia Nonna Paterna che me ne fece dono.

O furcìnë, le forchette, non utilizzavano affatto le classiche, ma quelle appositamente scelte, quelle più appuntite, magari avute onorese in eredità, e che utilizzavano solamente per pungere i salami, quindi tenute e custodite come la cara cresima.
Le case venivano tenute al freddo, non al gelo, e in camino giusto na pundarèllë dë fuòchë tenuto sotto controllo.
La carne arrivava nel primo pomeriggio o a ora di pranzo, e aveva inizio la festa.
Tutti invitati: parenti, amici, cumbærë e vicinato, tutti alla cena dove servivano puppèttë dë carnuværë, maccarùnë cu fièrrë o ràšcatièllë e vinë ca cu pëllëzzònë ca së mëttiènë e mò u sëndiènë u frìddë.
Messa la testa del maiale alla finestra, tutte a cucca’, che all’indomani iniziava il vero lavoro, quello svolto perlopiù dalle donne.


Lavati gli intestini e macinata e condita la carne, iniziavano a ghènghië, ed uno ad uno tra sauzizze e supërsætë si riempivano i športe. E continuavano con cæpëcuòllë, vucculærë, prësùttë, prësuttièllë, làrdë, sùrrë, murtatèllë, e preparavanòscòrzë, ‘nnuglië e suffrìtte, che il giorno dopo ‘nzògnë e frìttuwë e gëlatìnë avèrënë fàttë.

Foto Michele Cafaro

Il giorno più bello, però, quello del sanguinaccio, dove un vero e proprio rito vedeva gente andare e venire di casa in casa con in mano dei piatti.
Una pratica andata quasi del tutto perduta, dove, almeno fino a quarant’anni fa, vedevi tizio che faceva assaggiare il sanguinaccio a vicini e parenti, mentre altri facevano lo stesso, e quei vicini e parenti che i piatti avevano svuotati, li riempivano del loro sanguinaccio, e li tornavano ai legittimi proprietari.

Oggi son rimaste davvero poche le famiglie che praticano questa tradizione. Se non fosse per le contrade, in paese potremmo dichiararla in via d'estinzione.
Un tempo, invece, il maiale era un bene prezioso.
“Cu puòrchë c’è staie buon n’annë” dicevano.
Insieme all’asino, il grano e l’olio, era il tesoro di una famiglia, e di esso non si buttava via assolutamente nulla, manco le ossa che venivano date a cani e gatti, di casa o randagi, e tantomeno la vescica, perché u tièmbë dë puòrchë era anche tempo dë Carnuværë, e i ragazzi c’aviena fǽ u cupë cupë, e povera quella casa che apriva loro la porta.


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Traduzione alcuni termini dialettali
presenti nella storia


buffèttë e buffëttèllë
Tavolino, di medie-piccole dimensioni utilizzato per pranzare o cenare, solitamente vicini al camino

cëlëræsë
Soffitto

pëllëzzònë
Termine, uno dei tanti, che identifica la sbornia

rullëcèllë
Piccolo locale al pianoterra di una casa dove si allevavano gli animali

sànghëtièllë
Sangue del maiale soffritto in padella

sùrrë
Pancetta

zaccurævë
Grosso ago



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