Maggio 2024, Chiaromonte e le sue Storie dedica il mese ai lavoratori Chiaromontesi

Cerca nel blog

Il 25 aprile e Chiaromonte antifascista

 di G.D. Amendolara

☙____________❧

Storia inserita in archivio > Chiaromontesi raccontano


In memoria di Antonio Pozzi,
eroico carabiniere e Chiaromontese
barbaramente ucciso dai nazifascisti



“se non è oggi, sarà stasera, la gente nera, la gente nera.
Se non è oggi, sarà stasera, la gente nera l’edda sparì”
Canto dei ribelli Chiaromontesi




__________________

Questa che stai per leggere è un esclusiva di
Chiaromonte e le sue Storie
_________________



Chiaromonte,
secondo ventennio del 900.

Con ancora gli occhi pieni di lacrime per quei quaranta nomi perduti nella Grande Guerra, a pochi mesi dalla sua fine, i Chiaromontesi affrontarono un nuovo e più cruento incubo: il fascismo.
L’opposizione non si fece attendere, nonostante le leggi in vigore che con la loro durezza ottennero silenzio e sottomissione.
A non rimanere inermi furono soprattutto i socialisti che, costretti alle dimissioni nel 1923 dopo 18 anni di amministrazione, si organizzarono come meglio poterono e, clandestinamente, diedero inizio ad un aspra lotta contro l’attività della “gente nera”.
A dare loro man forte gran parte della popolazione che ad ogni occasione possibile, con agguati e sotterfugi, ripagava il nemico con la stessa moneta.
Popolo storicamente pacifico, il Chiaromontese con l’avvento del fascismo diede grande dimostrazione di forza e coraggio e. a riguardo, voglio raccontarvi un episodio in particolare, realmente accaduto nel 1943.

“Attraversando a gran velocità la strada 104, alcuni soldati tedeschi a bordo di una camionetta, in fuga dal bombardamento di Sapri, giunti a Santa Caterina si ritrovarono coinvolti in uno scenario imprevedibile.
Tre giovanissimi pastori, tre bambini, al pascolo col gregge nella zona, notato il polverone arrivare spedito in loro direzione, trasformato in coraggio la paura che li fece dapprima nascondere, attaccarono ferocemente il mezzo con una fitta sassaiola, mettendo in fuga i soldati verso chissà quale destino”.

Da sinistra: Nicola Scalera, Raffaele Amendolara,
Luigi Cafaro

I nomi dei tre piccoli ma grandi eroi sono Nicola Scalera (grattaciàrsë), Raffaele Amendolara¹ (da Mulënærë) e Luigi Cafaro (Cucchiarònë).

In quello stesso anno, con esattezza il 30 dicembre, a Forte Bravetta veniva fucilato, dopo severe torture, il nostro eroe Antonio Pozzi, carabiniere e partigiano² contro l’oppressione nazi-fascista.

Antonio Pozzi

Tra arruolamenti, vittime, arresti, deportazioni, restrizioni, obblighi, pestaggi e soprusi di vario genere, l’impatto della seconda guerra mondiale e del fascismo sul nostro paese causò disagi a dir poco insopportabili.
Se durante la Grande Guerra il nemico lo conobbero grazie alla corrispondenza, ora lo avevano in casa, in mezzo a loro, e lo sarebbe stato per un “ventennio”, il peggiore della nostra storia.




Aprile, 1945.

Dal resto della nazione arrivarono notizie rincuoranti.
Partigiani, esercito e alleati attaccarono con bruta forza il nemico tedesco duro a cadere.
Una mattina calda di primavera, arrivò la tanto attesa notizia.

“ SIAMO LIBERI! È FINITA!”

Cosi, con un urlo di gioia, il capitano dei carabinieri avvisava che la guerra era finita.
La popolazione intera venne informata dal banditore Vincenzo Battista, e fu gioia per tutti, Chiaromontesi e anche carabinieri, che a caro prezzo pagarono la loro fedeltà verso il popolo.

Carabinieri negli anni 30
davanti alla "vecchia caserma"

Fu così che ebbe inizio una nuova epoca per il nostro paese, quella che gli donò finalmente la tanto meritata dignità.
I fascisti rimasti non ebbero vita facile. Più di qualcuno decise di andarsene altrove.
Chiaromonte era libera, e questa volta davvero ma, con gran stupore, come tutto il meridione, al referendum costituzionale del 2 giugno 1946 votò quasi all’unanimità per la monarchia.
Questa, però, è una altra storia che racconterò in un futuro non tanto lontano.

La storia che avete appena letto è stata ispirata dal bellissimo video testimonianza di Giuseppina "a guàrdië" e dalla testimonianza dei tre piccoli eroi raccontata da Tonino Scalera (figlio di Nicola).
Avrei voluto raccontare molto altro, ma per adesso credo possa bastare.
Vi ricordo che siamo qui per ricordare, per raccontare e mai dimenticare, soprattutto i sacrifici dei nostri avi, coloro che hanno permesso a noi di godere della libertà e del benessere dei nostri giorni.



Emanuele Giglio immortala la testimonianza di sua madre, Giuseppina De Noia,
sulla liberazione dal fascismo.
Se il video non dovesse riprodursi,
potete visionarlo cliccando qui,
ma solo se siete iscritti al gruppo.



Ringrazio di vero cuore Tonino Scalera, Lino Cafaro e Emanuele Giglio.


__________________


¹ è da ritenersi probabile fino a conferma definitiva

²  venne qualificato nel 1946 come partigiano combattente del Fronte clandestino di resistenza dei carabinieri.


______________


QUÀNN’È TÀNNË PÒ VËDÌMË

Di G.D. Amendolara
in collaborazione con Debora Percoco
☙____________❧
Storia inserita in Archivio > Chiaromontesi raccontano




Mario Percoco, a sinistra, e Giovanni Cafaro a destra



Il Minimarket di Mario pareva un piccolo supermercato.
Stretto, lungo, diviso in tre blocchi dove trovavi di tutto, dai prodotti d’eccellenza ai giocattoli.
Lo gestiva insieme alla moglie Rosa, con la quale trasformava quel negozio in una casa pronta ad accogliere tutti.
Lo conoscevano tutti Mario.
Gentile, scherzoso, dedito al lavoro e alla famiglia, amante della buona compagnia e soprattutto della buona musica, ancor più apprezzata se suonata dal fidato amico, l’inseparabile violino.

Giuànnë Cucchiarònë era un simpaticone. Conoscevano anche lui in paese.
Amava l’allegria, la buona compagnia e la musica. Che fosse l’arrivo della banda o di un gruppo musicale per un evento sapevi dove trovarlo.
Ogni giorno prima di rientrare per pranzo, passava al Minimarket per salutare il suo caro amico Mario, sempre pronto a scambiare due chiacchiere con amici e clienti, inclusi quelli seduti sulla scaletta di fronte alla cassa e che non acquistavano niente.
Un giorno, arrivato puntuale in negozio per il classico saluto, tra una chiacchiera, una risata e una diceria, “Cumba Ma” saltò su con espressione seria:“M’eia prummèttë ca quànnë morëghë ‘nda chièsië m’eia sunǽ Violino Tsigano” concluse.
Di eventi e momenti Mario e il suo violino ne allietavano tantissimi, dalle serenate alle cerimonie, alle serate in compagnia. Funerali no. Erano le bande ad accompagnare le cerimonie funebri.
Cosi, spiazzato, “Giuà, piènzë a cambæ’, che quànn’è tànnë pò vëdìmë”, rispose, e rispondeva a tutti i rinnovi di quella richiesta.

Il tempo passò
Dopo anni di lavoro e sacrificio, Mario si apprestava a godersi la tanto meritata pensione e, soprattutto la famiglia.
Giovanni non ebbe la stessa fortuna.
La sua salute venne meno e, allontanatosi dal paese per le cure, si spense in un mite giorno d’estate.

1996

Giovanni rientrava nella sua amata Chiaromonte per l’ultimo viaggio.
Ad attenderlo amici, conoscenti e parenti.
Anche Mario lo attendeva, abbattuto, adirato e senza violino tra le mani, riportato in macchina perché non poteva, il parroco non voleva.
No! Non aveva dimenticato e tantomeno preso alla leggera quel “Cumba Mà, m’eia prummèttë…” sentito dire chissà quante volte.
Era uomo d’altri tempi, di buona famiglia e di sani principi, e manteneva la parola data.
“Quánn’è tánnė po vėdímė” era arrivato, ma non poteva, e non accettava l’idea che ad un defunto venisse negato l’ultimo desiderio.
Terminata la funzione, tra la calca di gente che fuoriusciva per l’ultimo saluto, di Mario neanche l’ombra, se n’era andato molto prima, avvolto da rabbia e dolore.
Però, oltre che essere un amicone, un seminatore di allegria, un personaggio amato, Mario era soprattutto un Chiaromontese, di quelli di una volta e, nel mentre il feretro si incamminava verso il carro funebre, col suono del violino invase ogni spazio, dentro e fuori.
Lo aveva recuperato. Si era appostato sulle scale della Chiesa, lì dove nessuno poteva cacciarlo e, ora avvolto dall’emozione, con le note di Violino Tsigano accompagnava quel piccolo uomo, il suo caro e buon amico Giovanni, nel suo ultimo viaggio, così come desiderava in vita.

Mario, al centro. Vittorio Monaco a sinistra
e Franco Amendolara sulla destra,
in una serata "concerto" insieme al
mandolinista Umberto Armenti "Mazzòccuwë"
e a Franco Ricciardi "il pasticciere"

Questa è una storia vera, fatta di amicizia, rispetto e valori.
La raccontò Mario a me e mio padre proprio lì, sulle scale della chiesa, in preda a mille emozioni, come se stesse vivendo quel giorno, nel minimo dettaglio, senza tralasciare nulla.
Ora sono entrambi allu mùnnë dë læ, come dicevano i nostri avi, di nuovo insieme, e chissà, magari Mario è li col violino tra le mani che allieta le ore eterne, e Giovanni, affinando la sua voce, ne canticchia i motivi, strizzando gli occhi, sorridendo e alzando le spalle per l’emozione.

Abbiano Paradiso. Lo meritano tutto, e seduti nei posti migliori.




Ringrazio di vero cuore Debora Percoco, Isabella Veronesi e Pino De Salvo


______________

O Furgiærë

Di Pinuccio Armenti
☙____________❧
Storia inserita in archivio > Chiaromontesi raccontano



nota: in questa storia non ho apportato alcuna correzione nelle parole in dialetto, e tantomeno nel modo di scrivere.
Pinuccio manca dal paese da sessant'anni, gli stessi in cui vive in Germania, e desidero che tutti voi siate testimoni del suo amore immutato verso il nostro paese, il più bello del mondo.


Egidio Ricciardi


Carissimi Compaesani e amici di Chiaromonte.
L'amore e l'affetto che porto al mio paese e, naturalmente a voi Chiaramontesi, è immenso, ed io non mi stancherei mai di nominarlo o di parlarne, anche se ormai sono più di 60 anni che ne son lontano.
Sette anni fa venni l'ultima volta a Chiaromonte, ma purtroppo solo per mezza giornata.
Mentre portavo le mie nipotine a far vedere loro il Monumento, passando davanti al Palazzo dei Giura, mi tornò in mente che proprio lì trascorsi tanti anni della mia gioventù.
Al lato della Torre feci la scuola elementare, e poi, nella stessa stanza, imparai il mestiere di barbiere da Umberto Landi.
Prima di arrivare alla Torre, mi ricordai che c'era una forgia. Ed è proprio di questo mestiere che oggi voglio parlarvi, o meglio, scrivervi: U Furger o il Fabbro.
Negli anni 50 e 60 allu pais nuost ce n’erano parecchi di furger.
Per non fare errori vi nomino solo quelli che io ricordo.
Io ricordo i fratelli Egidio e Peppino Ricciardi. Però non ricordo più dove avessero la Forgia.
Egidio, in dialetto Gidio u furger, abitava proprio vicino a funten allu Purtiell. Lui abitava al piano di sopra, mi ricordo che si doveva salire una scala. Non posso dirvi con certezza se sotto casa fosse la Forgia.
Poi c'era il fratello Peppino che pure lui facie u furger. So che prima abitava verso a Temba ma poi andò ad abitare verso u Calangone o u Calvario. Questo mi è stato riferito, scusatemi se non è giusto.
Mi ricordo che loro facevano di più ringhiere, inferriate di balconi. Non ricordo se lavorassero assieme.
Mi sembra di ricordare che poi Peppino aiutava spesso Peppino u funtaner, e andava mettendo tubi per le case.
Oggi diremmo faceva più l'idraulico che u furger.

La "forgia" dei fratelli Ronga, sulla sinistra,
la porta con la scala.

I fratelli GIUANN e LUIGI RONGA sono i furger che mi sono rimasti meglio nella memoria.
Avendo la Forgia vicino alla Torre del Palazzo dei Giura, ed io ero là vicino ad imparare il mestiere, li vedevo e li sentivo tutti i giorni.
Loro facevano veramente di tutto. Zappe, Picconi, Budent ( non so come si chiamano in italiano), poi ferravano Asini e Muli.

Luigi Ronga

Vi ricorderete che gli asini ed i Muli portavano agli zoccoli dei ferri.Quando avevo tempo mi divertivo a guardare. Era un lavoro non tanto facile. C'erano asini che sopportavano pazientemente la procedura di mettersi le scarpe (i ferri) nuove. Io ho visto dei muli scalpitare e scalciare che erano veramente dolori per il Fabbro e quelli che aiutavano. Però la cosa che a me è rimasta più nella memoria è quella di quando battevano il ferro cocente per dargli una forma. Erano in due, Giuann e Luigi.
Mettevano il ferro caldo sull'incudine e con dei martelli battevano il ferro con un ritmo che sembrava una melodia.
Poi si sentiva a bott du Mastro, che batteva due volte sull'incudine mentre l'altro aspettava, e poi si riprendeva.
A volte d'inverno quando faceva freddo per riscaldarmi un pò andavo a menare il mantice. Si girava una manovella che soffiava dell'aria, cosi alimentava il fuoco dove veniva messo il ferro per poi poterlo lavorare.
Ho scritto un po’ di più dei Fratelli RONGA perche li ho vissuti più da vicino.
Vincenzo “ a Uzìllë” Francomano
Però c'era ancora un altro furger ndu Pais. Era Vicienz Auzill.
Auzill era il sopranome. Non ricordo se facesse Alberti o Francomano di cognome.
La forgia era vicino la casa di Ndonio Mastcetue, 200 metri prima di arrivare nda Chiazzoll.
Anche lui era molto bravo. Io mi ricordo che quando passavo di là, scendendo da San Tommaso, davanti alla Forgia c'era uno spiazzale, e li vedevo spesso Aratri che avevano bisogno di essere riparati.
Giovanni che scrive le storie di Chiaromonte mi dice che Vincenzo Auzill ha un figlio che è molto bravo anche lui, però io non lo conosco, quindi non posso dire di più.
Un ultima cosa voglio dirvela .
Nelle nostre case una volta all'interno sulla porta c'era sempre un ferro di Cavallo.
Si diceva che scongiurasse il malocchio. Non so se oggi ancora si usa.
Chiudo con un abbraccio a tutti voi e alla prossima.
Ancora ci sono tanti mestieri da ricordare.



Ringrazio vivamente di cuore Luana Francomano per la foto del nonno Vincenzo, Antonio Cafaro per la foto del nonno Luigi e Nicola Ricciardi per la foto del padre Egidio.



Argomenti correlati: U Mastærë


_____________


U Pëccëllætë

U Pëccëllætë
Storia, antico rito e tradizione Chiaromontese

di G.D. Amendolara

☙______________❧
Storia inserita in Archivio > Tradizione culinaria



a sinistra u tòrtënë, a destra u pëccëllætë

____________


Antico rito Chiaromontese


“Raccoglievano le uova sin dopo le Ceneri, conservandole e custodendole come un bene prezioso.
Pronto anche u cruscèndë da qualche giorno, il mercoledì della settimana Santa impastavano i due ingredienti insieme a farina, acqua, sale, ‘nzògnë e, a piacimento, anche un goccio di vino bianco, lasciandolo riposare e lievitare ‘nda fazzatòrë sino al mattino dopo, quello del Giovedì Santo.
Prima dell’alba le forme pronte venivano infornate. A differenza del pane, posato sulla stessa šcanætë senza un ordine preciso, per i pëccëllætë la tradizione prevedeva una sequenza da rispettare:
Il primo sfornato era per Gesù Cristo, da portare in chiesa per l’ultima cena.
Il secondo per il capofamiglia.
Il terzo per la madre.
I quarti, pùpë per le femminucce(una treccia con un uovo incastonato cosi da somigliare una bambola avvolta nel fagotto) e trastanèllë (a forma di borsetta) per i maschietti.
I restanti per l'ariè da mësèrëcordië, da dispensare agli affetti e ai bisognosi.
E vedevi, come per il sanguinaccio, tra famiglie e vicinato, lo scambio dei Pëccëllætë, e la donazione di questi a chi ne aveva più bisogno”.



Pëccëllætë e tòrtënë.
Forno De Palma



Storia e tradizione
__________


“Mamma mië m’è chiamætë pëccëllætë e i më morëghë da fæmë”
Recitava un vecchio modo di dire Chiaromontese



Pëccëllætë di Gabriele Ricciardi
Sentivano la Pasqua ancor più del Natale i nostri avi.
Rispettarne le tradizioni, come quella du Pëccëllætë, saziava e rafforzava dovere e gratitudine verso Dio.
In principio, come narrano le testimonianze tramandate, era un pane azzimo, na pëttëcella lìscë senza sale (in chiaromontese pëttëcèlla gàimë) con incastonata una foglia di ulivo.
Quasi certa è l’influenza di altre culture gastronomiche che ne hanno arricchito l’impasto e la forma ancora attuali.
A riguardo, chi ipotizza l’intreccio tra la tradizione gastronomica Pasquale Lucana e quella Arbëreshë, chi con quella Partenopea o campana, fortemente presente nei nostri usi e costumi, la più attendibilie, in quanto u Pëccëllætë a Chiaromonte veniva chiamato Tòrtënë, tortano, come il tipico rustico della tradizione Pasquale napoletana.
È una tradizione ancora viva in gran parte del meridione, con forme o nomi diversi.

La versione "antica".
Forno De Palma

A Chiaromonte prevale la versione salata.
Dall’impasto si ricavano anche altri pani Pasquali come i già citati pùpë e trastanèllë, e u tòrtënë, o turtanièllë, nu pëccëllætë senza uova incastonate.
La forma a “ciambella”, circolare, è un simbolo strettamente religioso, e richiama la corona di spine sul capo di Gesù Cristo.

Produzioni della rosticcera “Le buone cose”
In basso: a sinistra a pùpë, al centro a trastanèllë.
In alto a destra la versione dolce


Il rito du Pëccëllætë è andato perduto da decenni.
In casa ormai non lo produce quasi più nessuno, e la tradizione regge grazie al lavoro dei mastri fornai Chiaromontesi.
Gli asparagi, però, quelli li raccolgono quasi tutti, e la frittata per la colazione di Pasqua non si mangia se a tavola non gænë u pëccëllætë, a pùpë e a trastanèllë.



Storie collegate:


______________

U Mastærë (il bastaio)

Di Pinuccio Armenti


☙______________❧
Storia inserita in Archivio > Chiaromontesi raccontano



nota: in questa storia non ho apportato alcuna correzione nelle parole in dialetto, e tantomeno nel modo di scrivere.
Pinuccio manca dal paese da sessant'anni, gli stessi in cui vive in Germania, e desidero che tutti voi siate testimoni del suo amore immutato verso il nostro paese, il più bello del mondo.




La bottega e casa di Angelo Donato, sulla destra,
abbattuta per far posto al Palazzo degli Uffici



Prefazione
dell'autore

Cari compaesani dopo avere letto l'articolo del nostro Giovanni in Chiaromonte e le sue Storie dove descrive cosi' bene come era bello il tempo quando si uccideva u puorc nda chesa. 
Pensando, mi sono chiesto: Ma tutto questo progresso ha fatto bene al nostro paese?  
Lo so, io ho 80 anni e manco dal nostro paese da parecchi anni, quindi non posso giudicare obbiettivamente l'evoluzione che c'è stata in paese.  
Ammetto anche che si deve andare con il tempo ed è giusto che sia cosi. 
Però, perdonatemi, io sono un romanticone e penso spesso al tempo passato. 
Giovanni scrive: chi aveva nu puorc, nu ciuccio, grano ed olio era ricco e stava bene per un anno intero.
Ai miei tempi era bello quando camminavi ndi strittui du pais, sentivi un gallo cantare, nu ciuccio ragliare, nu puorc grugnire, qualche gallinella che ti veniva dietro.
Oggi non senti più nu scarper che batte la suola, la pialla di un falegname, l'incudine di nu furger, la macchinetta di nu master ca carusev nu ciuccio. Adesso ste vie o sti srittui tacciono. 
Solo il rumore di nu trerrote, o delle macchine che ora salgono fino al serbatoio. 
E' bene il progresso, e si deve andare coi tempi che corrono. Io sono ormai anziano, però  se vi fa piacere vorrei scrivere e ricordarvi di quei mestieri che a Chiaromonte non esistono più. 
Al nostro paese una volta c'erano dei mestieri con cui si poteva mantenere la famiglia, e stavano anche bene.
Assieme a Giovanni vorrei scrivere qualcosa su questi mestieri e magari ricordarvi di qualche compaesano che ci ha lasciato  per sempre. 
Va ricurdete ca a Chirimond  c'erano furnacer, master, scarper, falegname e furger? 
Ve ne parlero' a seguire.



U Mastærë
______________


Cari Compaesani e amici di Chiaromonte.
Dopo avervi parlato di zi Ndonio u Parent, che fu' l'unico fornaciaio che io ricordi, voglio parlarvi di un altro mestiere che non esiste più a Chiaromonte, e precisamente: U Master.
Per i più giovani, quelli che facevano il Basto per gli asini.
Non so di preciso quando ce n’erano al nostro paese.
Ci sono più famiglie a Chiaromonte che di sopranome vengono chiamati i master.
Io due me li ricordo benissimo. Erano i fratelli Pasquale e Angelo, Gangiluzz in dialetto, Donato.
Io vi parlo degli anni 50.

Donna con asino.
Attaccato allu mast, due sportoni,
dove, oltre trasportare i raccolti della campagna,
venivano utilizzati anche come vano per i bambini.
© Edward C. Banfield - 1955


Pasquale aveva la sua bottega di fronte alla casa dei Miraglia. Gangiluzz aveva la bottega, ancora non c'era il palazzo degli Uffici, sotto u Mur da porta.
Allora c'era na bella discesa anche con dei gradini che andava du mur da porta e scinnie alla Costa. E li Gangiluzz, aveva na chesecell e da sotto avie a puteg.
Poi costruirono il palazzo degli Uffici, se non sbaglio il 57, e dovette lasciare tutto e comprò casa di fronte alla tipografia di Luigi Racioppi.
Poi se ne andò con tutta la famiglia a Torino.
Ma tornando al mestiere, i master allora avevano un sacco di lavoro.
A Chiaromonte quasi tutti i contadini avevano u ciuccio o anche il mulo.
A quei tempi era il mezzo di trasporto più usato per quelli che andavano in campagna.
U ciucc purtev a samm. Senza du mast, non sarebbe stato possibile.
Ai lati du Mast si mettevano due cofani o spirtun, e la dentro si ci metteva tutto quello che la campagna dava.
Gësèppë Tërribbuwë
lega gli sportoni allu ‘mmastë.
Foto: Nicola Donato
I Muli portavano la legna per l'inverno a quelli che facevano la provvista, cosi i propietari si guadagnavano la giornata.
U master faceva si ca allu ciuccio non gli mancava niente.
A puteg si può paragonare come un officina di macchine oggi.
A volte era bello vedere che c'erano 3, 4 asini che aspettavano il loro turno.
Non so dirvi quanto costava nu mast, però credo che allora era una bella somma da pagare.
Non è ca nu mast si facia nda nu pere d'ore. Ci volevano un paia di giorni.
Poi un altro lavoro che facevano i master, era la tosatura degli asini. Ogni mese veniva tagliato il pelo, cosi non sudavano tanto quando avevano il peso sulla groppa.
La macchinetta era come quella che usavano i barbieri naturalmente molto più robusta. Si doveva essere in due. U master tosava e u patrun du ciucc o un altra persona doveva girare una manovella che era attaccata ad una specie di trepiedi. Poi c'era una specie di tubo di metallo lungo un paio di metri. Questa manovella, girandola ad un certa velocità, attivava la macchinetta che era collegata con questo tubo (non trovo la parola adatta) che faceva funzionare il tutto.
Pasquale aveva il figlio Paolo che gli dava una mano, ma poi anche lui cambiò mestiere. Invece Gangiluzz non aveva nessuno.

Foto di Giuseppe Comito

Anche io, dopo la scuola, quando non sapevo cosa fare, andavo ad aiutare a girare la manovella, cosi mi guadagnavo qualche 10 lire. Forse da li mi è venuta la voglia di fare il barbiere.
Nooo!!! Stavo scherzando.
Agli inizi degli anni 60 gli asini incominciarono a sparire.
Io partii per la Germania, quindi no so per quando tempo Pasquale ha fatto il suo mestiere.
Col passare degli anni a Chiaromonte non ci furono più asini, di conseguenza morì pure il mestiere du Master.


_____________


Zi Ndonio u Parent

Di Pinuccio Armenti

☙______________❧

nota: in questa storia non ho apportato alcuna correzione nelle parole in dialetto.
Pinuccio manca dal paese da sessant'anni, e desidero che tutti voi siate testimoni del suo amore immutato verso il nostro paese, il più bello del mondo.


______________



U Parent con la famiglia. Il primo a sinistra.


_____________


Carissimi compaesani e amici di Chiaromonte.
Questa volta vorrei parlarvi di una persona a me molto cara. Certo, non ha fatto la storia di Chiaromonte, però è rimasta nella memoria di molti Chiramontesi.
Si tratta di zi Ndonio u Parent.
Io ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia povera, ma molto allegra.
Educata verso il prossimo e allo stesso tempo molto giuliva.
Mia nonna, Maria De Salvo, chiamata da tutti i paesani zia Mariuccia, era molto benvoluta.
Era una persona buona come il pane e cosi educata che a noi nipoti ci parlava dandoci del " signiria". Quando veniva o andava da qualcuno bussava alla porta e chiedevano o chiedevamo : " chi è? Lei rispondeva : una serva . Pensate che umilta'.
Ebbene la mia nonna aveva 3 fratelli, Antonio, Pietro e Giovanni ed una sorella Rosina anche lei buonissima di animo sposata con Giovanni Cafarell .
Loro faceveno i furese a Don Fabio alla Massaria dei Dolcetti.
Però io voglio parlare dei fratelli Zi Ndonio u parent.

Uomo nato la fine dell'800.
Io lo ricordo, avevo 3 anni e ho avuto la fortuna di vivere con lui fino a quando avevo 13, 14 anni.
Lui a aveva già una 70ina di anni.
Non tanto alto, magro, ma muscoloso. Il suo viso già segnato da tante rughe, un bel paia di baffi ndurciglietcome si usavano allora. Sotto quei baffi un sorriso sornione quasi fissiatore.
Abitava alla Chiusa, una contrada di campagna più sotto di Sant Uopo.
Li aveva una casetta e il suo lavoro. Lui faceva il Fornaciaro. Non so se in italiano si dica cosi. Lui faceva mattoni di creta, di tanti tipi e grandezze.
La sua specialità erano l'ermici per le case du pais nuost.
Io ricordo, avevo un 10ina di anni andavamo spesso alla Chiusa dove anche la nonna aveva nu casiniell. Non era grande, ma ci si poteva dormire. C'era un lettone dove potevano dormire 4,5 persone. Materasso? No ,nu saccon imbottito di paglia. Ohh !!! Come si durmie bell.
Il giorno andavamo per la campagna cercando ramaglie, piezz di legune per poter fare il fuoco pe fuche'.
A volte u zie mi faceva provare con la creta a fare dei mattoni.
Per lavarci ci buttavamo nella piscina. Poi la sera era bellissima. Si mangiava fuori nell'Aia.
Lo zio beveva volentieri nu bicchirucc di vino, poi pigliava l'organetto e allietava la serata con tarantelle e muntagnole sotto un cielo splendido ricoperto di stelle, e la luna piena era la nostra luce.
Quando veniva al paese era una festa. Tutta la gente che incontrava lo salutavano: buongiorno Pare'.
Lui era il parente di tutti. Tutti lo volevano bene.
Ormai aveva superato gli 80 anni.
I suoi passi si erano appesantiti.
Un giorno eravamo seduti vicino e lui mi disse una cosa che non ho mai dimenticato. Con voce un pò tremante mi disse: "Niputie' ti voglio dici na cose, quann e' gi muort i christien dirann: O cazz e' muort u parent”. E cosi' fu, 3 o 4 mesi dopo mori.
Ndu pais s'avie spars a voce. E come la voce passava da l'uno a l'altro dicevano: " Oh cazz!! E' muort u parent”.
Certo questa non e' proprio storia di Chiaromonte, ma una persona cosi non si dimentica facilmente .
Ora la famiglia di parenti e' quasi finita.
Un paia di nipoti ci sono ancora.
A Chiaromonte si ricorderanno sempre da famiglie du Parent.


______________


TIÈMBË DË PUÒRCHË

Di G.D. Amendolara
☙______________❧
Storia inserita in Archivio > Tradizioni






La depilazione del maiale.
Chiaromonte anni 60

_____________




Questa storia contiene termini dialettali.
Alla fine del testo la traduzione dei termini incomprensibili.

_____________



‘Nda së misë dë vièrnë Chiaromonte pareva u cambësàndë di puòrcë.
Gennaio, ma anche febbraio, il mese adatto per la macellazione del maiale, p’accìdë u puòrchë.
Alcuni provvedevano sotto Natale perché provvisti del posto adatto per poterlo curare e, magari, in questo mese macellavano il secondo, soprattutto nelle famiglie numerose.
Gli altri, i molti, attendevano febbraio, per l’appunto, pëcchè ièrë tièmbë dë puòrchë, e potevano curarli benissimo in casa, appìsë allu cëlëræsë.
Ne allevavano almeno uno a famiglia.


U sanapurcèllë in piazza mercato.
Anni 54/55.

Di solito li acquistavano alla fiera di Sant’Uopo o San Giovanni a Giugno, e a quella du Cataruòzzuwë a settembre li portavano a sanǽ, facendoli benedire da Sant’Antonio, anche se non era Abate, il santo raffigurato col maiale.


Uno degli ultimi maiali cresciuti in paese,
nel rione timpone.
Foto Giuseppe Comito. Prima metà anni 80


Un tempo chi viveva in paese, seppur proprietario di qualche piccolo pezzo di terra, oltre che galline, conigli, asini, pecore e capre, in casa, o ‘nda rullëcèllë, cresceva anche il maiale, e tutti i giorni lo si faceva pascolare pë ‘ndi strìttuwë.

Il giorno dell’uccisione, più che di lavoro, diveniva una vera e propria festa, nonché un rito che univa numerosi gruppi di persone, oltre che intere famiglie.
Prima che nasceva il sole, accendevano il fuoco posizionandovi na caudærë piena di acqua, così che, al momento della macellazione raggiungeva il bollore, così che li aiutava nella depilazione dell’animale.

Gli uomini provvedevano alla macellazione, senza margini di errore.
Le donne raccoglievano il sangue e davano una prima lavata agli intestini, e poi, tutti insieme, con l’acqua bollente, depilavano l’animale, senza buttare i peli, che sarebbero stati utilizzati o venduti.
A priesta matìnë avevano già concluso il primo passo.
Una volta sezionato in tre parti, potevano fare la colazione, e oltre ciò che avevano portato da casa, sul fuoco nella padella cuocevano u sànghëtièllë e un pezzetto di filetto, iuste pu buon augurië, e compariva il vino per far scendere il tutto… e per benedire.
Nel frattempo nelle case le donne avevano già preparato buffëttèllë, buffèttë, šcanatùrë, curtièllë, zaccurævë, spæchë, machënèttë, zafarænë pësætë, sælë, pèpë, acìtë, lëmunë, përtëgàllë, mësælë, mappìnë, struòglië p’annëttǽ, angun’atu cundë e… o furcìnë.




Una forchetta utilizzata per forare gli intestini.
Questa appartiene alla famiglia Paradiso,
ereditata da mia Nonna Paterna che me ne fece dono.

O furcìnë, le forchette, non utilizzavano affatto le classiche, ma quelle appositamente scelte, quelle più appuntite, magari avute onorese in eredità, e che utilizzavano solamente per pungere i salami, quindi tenute e custodite come la cara cresima.
Le case venivano tenute al freddo, non al gelo, e in camino giusto na pundarèllë dë fuòchë tenuto sotto controllo.
La carne arrivava nel primo pomeriggio o a ora di pranzo, e aveva inizio la festa.
Tutti invitati: parenti, amici, cumbærë e vicinato, tutti alla cena dove servivano puppèttë dë carnuværë, maccarùnë cu fièrrë o ràšcatièllë e vinë ca cu pëllëzzònë ca së mëttiènë e mò u sëndiènë u frìddë.
Messa la testa del maiale alla finestra, tutte a cucca’, che all’indomani iniziava il vero lavoro, quello svolto perlopiù dalle donne.


Lavati gli intestini e macinata e condita la carne, iniziavano a ghènghië, ed uno ad uno tra sauzizze e supërsætë si riempivano i športe. E continuavano con cæpëcuòllë, vucculærë, prësùttë, prësuttièllë, làrdë, sùrrë, murtatèllë, e preparavanòscòrzë, ‘nnuglië e suffrìtte, che il giorno dopo ‘nzògnë e frìttuwë e gëlatìnë avèrënë fàttë.

Foto Michele Cafaro

Il giorno più bello, però, quello del sanguinaccio, dove un vero e proprio rito vedeva gente andare e venire di casa in casa con in mano dei piatti.
Una pratica andata quasi del tutto perduta, dove, almeno fino a quarant’anni fa, vedevi tizio che faceva assaggiare il sanguinaccio a vicini e parenti, mentre altri facevano lo stesso, e quei vicini e parenti che i piatti avevano svuotati, li riempivano del loro sanguinaccio, e li tornavano ai legittimi proprietari.

Oggi son rimaste davvero poche le famiglie che praticano questa tradizione. Se non fosse per le contrade, in paese potremmo dichiararla in via d'estinzione.
Un tempo, invece, il maiale era un bene prezioso.
“Cu puòrchë c’è staie buon n’annë” dicevano.
Insieme all’asino, il grano e l’olio, era il tesoro di una famiglia, e di esso non si buttava via assolutamente nulla, manco le ossa che venivano date a cani e gatti, di casa o randagi, e tantomeno la vescica, perché u tièmbë dë puòrchë era anche tempo dë Carnuværë, e i ragazzi c’aviena fǽ u cupë cupë, e povera quella casa che apriva loro la porta.


______________

Traduzione alcuni termini dialettali
presenti nella storia


buffèttë e buffëttèllë
Tavolino, di medie-piccole dimensioni utilizzato per pranzare o cenare, solitamente vicini al camino

cëlëræsë
Soffitto

pëllëzzònë
Termine, uno dei tanti, che identifica la sbornia

rullëcèllë
Piccolo locale al pianoterra di una casa dove si allevavano gli animali

sànghëtièllë
Sangue del maiale soffritto in padella

sùrrë
Pancetta

zaccurævë
Grosso ago



______________