Maggio 2024, Chiaromonte e le sue Storie dedica il mese ai lavoratori Chiaromontesi

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Prièvëtë e prëssèpië


Di G.D. Amendolara
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Storia inserita in Archivio > Chiaromontesi raccontano




Don Franco Ferrara, a sinistra, e Don Lorenzo, a destra



Questa storia contiene termini dialettali


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Le aveva comprate a Napoli.
Ne era orgoglioso, e per questo del suo presepe Don Lorenzo ne parlava sempre con tutti.
Da quando assunse il ruolo di cappellano dell’Ospedale, curava nei minimi particolari quell’opera realizzata nell’atrio del vecchio plesso.
Dipendenti e Benedetta la centralinista davano il loro aiuto, ma mai quanto il suo braccio destro, Tonino Viola, che di presepi ne realizzava già nella sua casetta allu Purtièllë.
Per la Chiesa di San Giovanni le cose funzionavano diversamente, grazie alla folta schiera di fedeli.
Fino alla chiusura al culto della chiesa di San Tommaso, quindi fine anni 60, la realizzazione del presepe altro non era che l’apice della loro rivalità.
‘Ndramèndë chi prièvëtë marchëngëgnævënë a còmë u fǽ, i parrocchiani raccoglievano spòrtë di muschio, tavole, tavëllùnë, pietre, cemento, tegole, chiuòvë, stràzzë viècchië e quàndë chiù putiènë e servito alla realizzazione dell’opera.
‘Ngumëngiævënë a ‘ngiarmiǽ a fine novembre, e o vëdièsë che manghë i màstrë sòpë a nu candièrë, cu prèvëtë ca facìë da gëgòmëtrë e capë mastrë, e tuttë l’ætë a fǽ da manuvælë e dëscìbbuwë, in primis bambini e ragazzi, per far si che fosse pronto per il giorno prestabilito, di solito l’otto di dicembre o, al massimo, Santa Lucia.
Di questa rivalità ne sono testimone, in quanto mio padre appartenente a San Tommaso e mia madre a San Giovanni. È classico sentirli ogni anno ricordare l’uno all’altro “il mio è più bello”.

La chiusura della chiesa di San Tommaso diede fine alle rivalità.
Gli anni 80, e il concentramento dei fedeli in una sola Chiesa, non fecero venir meno ne impegno e ne passione.
Don Franco Ferrara prima e Don Vincenzo Lofrano a seguire arricchirono la festa con tanto di eventi in Chiesa, e di rappresentazioni della Natività che vedeva poi esposto il bambinello in piazza fino all’Epifania.


Il primo presepe realizzato
da Don Vincenzo Lofrano e i fedeli nel 1987


Venne anche il nuovo millennio, che dalla piazza portò via la realizzazione del presepe e l’esposizione del bambinello (da quando un “povero diavolo” decise di distruggerne una copia), e la natività rare volte è andata in scena, in Chiesa o tra le vie del centro storico, ma sempre con grande coinvolgimento dei fedeli.
Il presepe in chiesa, invece, del tempo non ha paura, ed è sempre li, ogni anno più bello, pronto a scaldare i cuori dei fedeli, e non solo.


Altare di San Giovanni addobbato per Natale.
1958

Tornando alla rivalità, tra le due chiese chi realizzava il presepe più bello?
Entrambe.
Non hanno mai sfigurato, nemmeno quando ne rimase una sola aperta al culto, con un solo presepe e un solo Parroco.
E non escludo Don Lorenzo, che con le sue meravigliose opere, oltre che un atto di devozione, regalava ai pazienti dell’ospedale quei momenti di spensieratezza e speranza dei quali avevano bisogno.


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Dicembre, Chiaromonte e gli anni 80

Di G.D. Amendolara
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Storia inserita in Archivio > Operazione Nostalgia anni 80


Dicembre.
Il freddo rigido aveva anticipato l’arrivo dell’inverno, che i cannuièrë non attendevano la prima neve per poter fare la loro comparsa.
Le montagne, coperte dalle nuvole, raramente mostravano a pieno la neve che le copriva.
Poche erano le giornate soleggiate.
Il fumo dei comignoli si mimetizzava con il cielo bianco osservato da ragazzi e bambini speranzosi di veder cadere i primi fiocchi di neve .
Ecco come si presentava il panorama negli anni 80,
con la neve sulle montagne che si sarebbe sciolta in primavera,
ma quasi del tutto permanente su Caramola e massiccio del Pollino


 
Fotogramma Rai©.
Chiaromonte anni 80
In piazza, dove circolavano più mezzi che persone, Sciambiònë aveva chiuso la baracchina all’esterno del negozio, e allë tubbë nessuno era fermo per una chiacchierata.
Per incontrare facilmente qualcuno bastava fare un giro per le campagne, dove si ultimava la raccolta delle olive, o nei frantoi, dove il profumo dell’olio nuovo ìëpë l’arië.

Il chiosco, in anticipo su tutti, aveva già addobbato la vetrina con la catena luminosa, così come Egidio il tabaccaio e Figundio con le cartoline natalizie.
Nelle scuole i preparativi per le classiche recite a tema coinvolgevano numerosi alunni, e con le feste ormai alle porte, si attendeva l’installazione delle luminarie per le vie principali, che come sempre si faceva aspettare.


Io e Rocco Zito. Recita di Natale 1987

Le temperature rigide non avrebbero trattenuto i giovani desiderosi di una passeggiata o di una chiacchiera seduto sulle panchine gelate del corso e dello zampillo.
Altri, soprattutto maschi, si radunavano nei bar in attesa di una partita ai videogames, mentre gli adulti tra urla, fumo e imprecazioni, caratterizzavano quei pomeriggi, mentre all’esterno pareva essere caduto chissà quale armistizio.

I botti avevano fatto la loro comparsa già da qualche settimana, ma dal primo, e soprattutto dopo la sirena delle cinque, nessun angolo del paese rimaneva illeso.


Egidio il tabaccaio con i suoi clienti affezionati
©Roberto Lacava

A ripristinare la calma ci pensava il tocco della campana delle sette e mezza, che strade e locali avrebbe svuotato.
Tutti a casa, con attenzione rivolta verso il meteo, speranzosi di vedere la neve tanto attesa.
Il rumore delle saracinesche dei negozi che chiudevano davano inizio alla sera.
L’ultima era quella di Egidio il tabaccaio che, attraversando una piazza deserta, si inoltrava nei vicoli per tornare a casa, mentre gli ultimi comignoli smettevano di fumare, e un ultimo botto in lontananza si sarebbe sentiva sparare.

Cosi aveva inizio dicembre negli anni 80, dove l’aria di festa aveva il profumo del fritto nei vicoli, che zeppulë, cauzungìnë e scaudatièllë preparavano.
A giorni sarebbero apparse le luminarie, mostrati i presepi in chiesa e all’ospedale, apparsi i giochi belli sugli scaffali del minimarket, sicuramente qualche zampognaro in giro casa per casa e sarebbero state diffuse le canzoni prima della messa, perché arrivava l'otto, e iniziava la festa… Arrivava Natale.


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Ludovico Nicola Di Giura

LUCANI PER LE VIE DEL MONDO
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Il dott. Comm. Ludovico Nicola Di Giura

Articolo de
"La Basilicata nel Mondo"
mag/giu 1925

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Storia inserita in Archivio > I Grandi Chiaromontesi





È una delle più belle e forti affermazioni dell’ingegno lucano dell’Estero. 
La sua maschia figura ha tutte le impronte fisiche della nostra razza e della nostra Terra, come il suo spirito ne ha tutti i pregi morali e ideali. 
Alto, robusto, erta la fronte luminosa. E il suo sguardo, mentre ha la dolcezza serena e ridente delle anime miti e buone, rivela la fierezza del carattere e la tenacia della volontà indomita. 
Nacque in Chiaromonte, da cospicua famiglia che vanta la più nobile e insigne tradizione di patrimonio e lealtà. 
Il padre, barone Giovanni Di Giura, prefetto del Regno, e la madre, donna Giuseppina Branca, che nella sua doppia missione di sposa e di madre, fu raro esempio di virtù, lo educarono alla più alta e rigida disciplina del dovere, secondo le più sane tradizioni dell’austerità domestica lucana. 
Ludovico Di Giura venne su pensoso, intelligente e studioso: giovanissimo si laureò in medicina e chirurgia presso la Regia Università di Napoli e, secondando il suo ingegno e le sue inclinazioni, pensò subito di mettere a profitto il tesoro di studi pazientemente e diligentemente accumulato e il titolo acquisito. 
Nato tra i monti brulli della Basilicata, egli aveva in sé una profonda passione per il mare. 
Ne subiva immensamente il fascino, e la sua anima venturosa e nostalgica, nomade e poetica, lo trascinava verso le solitudini infinite, fra mare e cielo, come un Ulisse o un Pierre Loti di un suo sogno inespresso. 
Ludovico Nicola Di Giura in alta uniforme
Colse occasione di un concorso bandito per medici nella Marina da guerra e vi partecipò. 
Riuscì secondo in classifica. E, sa quel giorno, si può dire ch’egli abbia sempre vissuto sul mare, imbarcandosi su tutte le navi italiane, che partivano in missione per l’Estero o in crociera per i mari del mondo. Un viaggio suo merita speciale medizione. 
Ludovico Nicola Di Giura, infatti, fu tra i pochissimi ufficiali dell’Armata prescelti ad accompagnare sulla S.A.R. il duca degli Abbruzzi, nel giro marino del mondo, a bordo della “Cristoforo Colombo”…
Era una ciurma elettissima, su una nave dal nome fatidico, e portavano il trionfo d’Italia su tutti i mari infiniti. Ludovico Di Giura profittò di quella occasione per recare il saluto della Terra Lucana alle colonie dei nostri comprovinciali sparsi nel mondo, e, specialmente, a quelle delle Americhe, che lo accolsero ovunque entusiasiasicamente e alle sorti delle quali egli si interessò con senno ed amore. 
Allo scoppio della Rivoluzione Cinese, nel 1900, il dottor Di Giura, notissimo per le sue doti preziose di organizzatore e animatore, fu mandato a Pechino con la missione italiana. 
E tale fu la sua opera, ch’egli riuscì presto ad affermarsi tra le personalità più eminenti dell’ambiente internazionale cinese, contribuendo potentemente ad accrescere il prestigio del nome dell’Italia nell’Estremo Oriente. 
Il fascino dei grandi fiumi, della civiltà del popolo di Buddha né acquisirono e sedussero l’anima sognatrice. Lo rubarono all’amore per il mare. E Ludovico Di Giura rinunziò nella Marina e si stabili a Pechino, come medico di quella Regia Delegazione Italiana. 
Quando divampò la guerra europea, egli si mise a disposizione del suo Governo, perché la sua opera di medico fosse utilizzata nel miglior modo possibile sui campi delle cento battaglie; ma, per quanto vive fossero le sue insistenze, il Governo credè doverlo lasciare a continuare la sua opera preziosa di Italianità in Cina. 
Egli non venne meno alla fiducia del Governo. In Cina, alla Corte, fra le autorità, nel popolo, guadagnò continuamente con la sua opera simpatia e ammirazione per l’Italia, e rese apprezzatissimi servizi al suo Paese. 
Oltre che medico e chirurgo di gran valore e studioso versatissimo di scienze, egli fu cultore e conoscitore esperto di molte lingue; e apprese così bene la lingua cinese, che divenne per questo popolarissimo a Pechino, anche fra gli indigeni, i quali ricorsero quotidianamente alla sua opera di medico reputatissimo. 
Fu nominato direttore dell’ospedale internazionale dei Missionari italiani, ed è stato insignito di moltissime onorificenze italiane ed estere, le quali attestano l’alta considerazione del dottor Di Giura è tenuto non solo nella vita civile, ma soprattutto in quella scientifica, per le sue svariate e interessanti pubblicazioni. 
Anche come inventore il suo nome è degnamente stimato. Nella nostra Marina Militare, infatti, si usa ancora un apparecchio chirurgico, detto “apparecchio Di Giura”perché da lui inventato. 
Egli fu anche cultore fine e sensibilissimo di arte, fedele alle tradizione della sua famiglia, che ebbe in tutti i tempi intelligentissimi amanti dell’arte del bello. 
Ed è prossima la pubblicazione di una raccolta di novelle originali cinesi, fedelmente tradotte dal dottor di Giura, e che di certo, riusciranno ad arricchire la nostra letteratura di preziose conoscenze di cose orientali, delle quali è tanto scarsa. Ne riparleremo a pubblicazione avvenuta. 
Dalla sua Terra di Basilicata, Ludovico Nicola Di Giura conservò ricordo ad affetto filiali, nostalgia e tenerezza ardenti, e fu vivissimo in lui il desiderio di ritornare, dopo una vita laboriosa e fervida di opere buone, dopo aver tanto navigato e tanto errato per le contrade del mondo, nella sua casa di Chiaromonte, ove i suoi concittadini lo circonderanno di ogni affetto e di meritata stima.

G. d. N.


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Non scuiëtǽ u muòrtë ca dòrmë

Di G.D. Amendolara
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Storia inserita in Archivio > ARRÆSË U FUÒCHË



La Vallina.
Un tempo senza boschi e sterpaglie, ma solo pascoli e coltivazioni.
Strana zona quella della Vallina, dove la storia impregna ogni granello della sua terra, e storielle e leggende la rendono mistica, tenebrosa, ancor di più da metà 800, quando il Comune decise di realizzare proprio su quel suolo il Cimitero, e quello che state per leggere lo vede protagonista, in una storia che racchiude sicuramente qualche briciolo di fantasia, ma anche un profondo significato.
Buona lettura.


Pastori
Chiaromonte, anni 20 circa


C’era una volta un pastore,
uno tra i tanti che popolava con il suo gregge le vaste terre del nostro territorio.
Sveglio ancor prima che sorgesse il sole, alle prime luci del mattino, raggiunte le stalle, sarebbe partito con pecore e capre verso la Vallina, il pascolo abituale, accompagnato dal suono dei campanacci e dalla dolce melodia dello zufolo ch’egli stesso suonava.
Per raggiungerlo avrebbe dovuto attraversare il sentiero costeggiante il cimitero.
Quella mattina, a differenza delle altre, una volta oltrepassato venne colto da una strana sensazione mai provata prima.
Guardandosi intorno realizzò che il gregge non c’era più, sparito.
Incredulo e colto dal panico cominciò a cercare nei dintorni, tra urla e fischi di richiamo, ma del gregge nemmeno l’ombra, ne in vicinanza e ne oltre.
Dopo vari e vani tentativi non gli rimase che tornare alle stalle, consapevole che quel danno subito e inflitto avrebbe avuto un caro prezzo da pagare, visti i trattamenti che i poveri pastori erano costretti subire a quei tempi.
Giunto a destinazione, paura, rabbia e tutto ciò che in quei momenti lo turbava si mutarono in meraviglia, perché trovò gli animali nelle stalle, come se non avessero mai varcato il cancello.


Il cimitero vecchio (a sinistra il cancello),
cosi come si presentava agli inizi del 1900.
Ritaglio di una cartolina dell'epoca


Cos’era mai accaduto? E soprattutto, chi o cosa aveva riportato indietro gli animali?

Calmato l’animo ripercorse tutta la giornata e, trovata la soluzione al mistero, gli si raggelò il sangue.
Realizzò che quello spiacevole evento avvenne per un suo errore, perché a differenza di tutte le altre mattine, attraversando il cimitero non aveva riposto lo zufolo, ma inconsciamente aveva continuato a suonare disturbando il sonno eterno dei morti, i quali lo avevano punito regalandogli quegli interminabili attimi di paura.
Fatto sta che da quel giorno, alla vista del cimitero, lo zufolo lo tenne a tacere, così da non turbare la pace ne ai morti, ne agli animali e tantomeno a se stesso.

Che sia storia reale o inventata nessuno lo sa, ma vero è che narra e tramanda il profondo rispetto dei nostri avi verso i defunti, tutti, e la morte, proprio come la buonanima di Luigi Ferrara “U Cucchièrë” ha immortalato in questa storia, e ringrazio di cuore Nicola Cicale per avermene fatto dono. 



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Giuànnë Pascarèllë “Giuànnë du tièmbë”

Di Pinuccio Armenti
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Inserita in Archivio > Chiaromontesi raccontano



nota: in questa storia non ho apportato alcuna correzione nelle parole in dialetto.
Pinuccio manca dal paese da sessant'anni, e desidero che tutti voi siate testimoni del suo amore immutato verso il nostro paese, il più bello del mondo.

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Carissimi compaesani e amici di Chiaromonte, oggi voglio parlare di zianam Giuann Pascarell.
Neanche lui ha fatto la storia di Chiaromonte, però ha lasciato il segno, tanto che perfino il nostro illustre Maestro Giovanni Percoco gli ha dedicato una poesia, e la copertina di un suo libro.
Cito la poesia del Maestro:

Cu na mene a na patacche
e nu vett all'ata mene
Pascarell duce e fiacche
se ne jie chiene, chiene.


Giuann du Tiemb
in un opera di Maria Gresia.
Copertina dell'ultima opera
del M° G. Percoco
"Poesia dialettale
Chiaromontese"

Il Maestro l'ha descritto in modo impeccabile.
Zi Giuann mie era nato a San Paolo in Brasile.
All'età di 6 o 7 anni tornò in Italia con sua mamma Concetta e famiglia. La mia Bisnonna.
Cresciuto nda Chiusa, campagna di Chiaromonte, passava le sue giornate pascolando angun fruscul. Qualche capra, ca facien u latte, tre o quatt pecurell, ca facien nu picc di lena.
Erano tempi duri.
Per lui la scuola non esisteva. A quei tempi in campagna dove lo trovavi un maestro.
Quindi doveva uscire tutti i giorni o col sole o con la pioggia o c'era a neve e facie fridd o aveva voglia o no, doveva farlo, perciò forse aveva questa fissazione du tiembe. Intanto il tempo passava.
Gli altri fratelli e sorelle si erano già tutti sposati, lui, l'ultimo rampollo della famiglia, non ha avuto mai la fortuna di trovare l'amore restando nubile e verginello per tutta la vita. Forse anche per questo era un pò arrabbiato con tutto il mondo.
Lui, essendo solo e non sapendo dove andare, rimase nella casa di sua sorella cioè mia nonna Mariuccia.
Non jer mbron come pensava tanta gente. Era rimasto un pò indietro con il tempo. Lui viveva nel suo mondo.
Mi ricordo che una volta guardavamo la televisione da nonna. Lui seduto di spalle allu fuculer una volta disse una cosa che mi rimase nella mente per tanto tempo. Era una trasmissione con Corrado. Ad un certo punto disse: mo nuie vidimi a loro, ma loro ni vedene a nui?
Quei loro era la gente che era in televisione.
Noi nipoti non sapevamo se dovevamo ridere o dire qualcosa. Con noi era buono come il pane, non era il burbero brontolone come lo definiva la gente.
A volte aveva una caramella, una noce o una castagna nella tasca della giacca. La prendeva e ce la dava dicendo: te niputiell, addulciscit a vucca.
Quando usciva di casa qualcuno lo salutava oppure lo stuzzicavano sope u tiembe, allora lui si fermava.
Ora cito di nuovo la poesia del Maestro Percoco.

Po' di botte se fermeve
e allu ciele jastemanne
Te!! Decije
e ce sputeve
cu na mossa tanda granne.
Il no jere mei cundende.
O c'ere u sole o nivecheve
sembe brutte jere u tiembe.

Lui brontolava sempre.
Forse lo faceva anche per attirare l'attenzione su di lui.
Con tutto che allu paise era conosciuto come il continuo brontolone, la gente lo voleva bene. D’altronde lui non ha fatto male a nessuno.
La sua fissazione jere u tiembe.
E finisco con le parole della poesia del Maestro :

Jastemeve Pascarell,
miche come fazze jije,
ma a jasteme jere belle
se u tiembe jere Dije.




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Di Sàndë e di muòrtë

Di G.D. Amendolara
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inserita in Archivio > Chiaromontesi raccontano
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Testo in dialetto con parafrasi di G.D. Amendolara




Lìngresso del vecchio cimitero


Iëssiènë da Chièsië comë i frummìcuwë ‘mbàrtë i sèttë.
O Sàndë aviènë bënëdìttë, ma aviènë a che fǽ, e picchë s’avèrënë fërmætë a fa na chiàcchiërë cu angunë nandë o Chièsië o ‘nda chiàzzë, pùrë pëcchè picchë ièrënë o lucë miènzë o vìë.
Accënëcætë ‘nda suttænë e catuòië, rëcugliènë tutt’i scierpë, cu iuòrnë appriessë averënë iutë a coglië i gulìvë, ca na vòtë i ‘ngumëngiàvënë u iuòrnë di muòrtë e fërnutë alëmmìnë sottë a nevë dë iënnærë.
Turnætë alla cæsë s’avèrënë mangiætë nu vëccunièllë dë pænë, scaffǽtë arræsë u fuòchë nu pìcchë, e prìmë dë së ìa cuccǽ avèrënë rëmìsë a tavulë, pëcchè nu picchë dë crëdènzë ‘ndu còrë n’avìë rëmastë.
Quèlla tavulë avèrënë ‘mbandìtë cu anguna nucë, duië clëmëndìnë, nu pìcca d’uvë, angunu stuzzarièllë dë pænë, gàcquë, vinë e, së su putiènë da përmèttë, purë angunë sfëzëcièllë o nu lëccuccìnë, pëcchè quella nottë i muòrtë avèrënë rëpassætë pë dònnë a cæsa lòrë, pa rëvëdè e pë salutæ i gèndë lòrë n’utëma vòtë.
“Pë l’anëmë du prëgatòrië dëcienë” e së iènë a cuccæ cu pënsièrë di gulìvë, ca spërànzë ch’avèrënë salutætë chillë tætë, mammë, frætë o figlië ca ‘mbaravìsë s’avìë chiamætë u Sëgnòrë.
E ‘ndramèndë ca parècchië durmiènë, tandë assæië së prëparavënë pë ghì n’ata votë alla Chièsië, ca mèssë di muòrtë c’avèrë stætë, e comë i frummicuwë allë sèttë da sera primë, accussì trasiènë ‘ndi Chiesië a gòrë dë nòttë, ma chi mænë chìnë dë guòglië, pænë, farìnë e tandë bènë dë Dië ca lassavënë all’altarë, ch’accussì o prièvëtë avèrënë graputë pi muòrtë lòrë o portë du Paravìsë.
Chi non cë ië crëtëcævë o prièvëtë, i ‘ccusavënë ca quella ròbbë avèrënë ‘nzëccætë ‘nd’angunu suttænë, e angunu picchë raggiònë aviènë, ma iè purë verë ca c’aviena sfamǽ chìllë pòvërë fëgliëcèllë ch’addò i mònëchë staviènë.
A matìnë dë nòttë, ‘ndramèndë ca chillë alla Chièsië së rëcugliènë, chìllë alla cæsë së gauzævënë.
Quìllë ch’aviènë mìsë alla tavulë a sera prìmë avèrë saziætë pë dëvuziònë e pë chìllë anëmë du Prëgatòrië che fàcchë u sapiènë s’aviènë passætë.
Së partìë pë fòrë, chi avèrë ‘ngumëngiætë a coglië i gulìvë, ma prìmë s’avèrë passætë pu cambësàndë pë salutæ o gèndë pròprië.
Arrëvætë allë gulivë, misë a pòstë i scierpë, cu virëghë ‘mmænë o dë ghënucchië ‘ndèrrë a ‘ssëglië chillë cadutë, “nnòmë dë Dië” avèrënë ‘ngumëngiætë, e u iuòrnë di muòrtë comë a nièndë avèrë passætë.


corso di potatura ulivi. Chiaromonte, anni 60


Uscivano dalle Chiese come formiche all’incirca alle sette.
Dai Santi erano stati benedetti, ma avevano da fare, e in pochi si sarebbero fermati a chiacchierare con qualcuno dinnanzi le Chiese o in piazza, anche perché le vie erano poco illuminate.
Concentrati nei magazzini, raccoglievano gli attrezzi, che il giorno dopo avrebbero cominciato la raccolta delle olive, che un tempo cominciava il giorno dei morti e finiva almeno sotto la neve di gennaio.
Tornati a casa avrebbero mangiato un boccone di pane, riscaldati dinnanzi al camino e prima di andare a letto avrebbero apparecchiato nuovamente la tavola, perché un po’ di credo nel cuore gli era rimasto.
Quella tavola sarebbe stata imbandita con qualche noce, clementine, un po’ di uva, qualche pezzo di pane, acqua, vino e, se potevano permetterselo, anche qualche sfizietto e dolciume, perché quella notte i defunti sarebbero ripassati dalla loro casa, per rivederla e per salutare i loro cari un ultima volta.
“Per le anime del Purgatorio” pronunciavano e andavano a letto col pensiero delle olive, con la speranza di poter salutare quei padri, quelle madri, fratelli o figli che in Paradiso il Signore li aveva chiamati.
E nel mentre che tanta gente dormiva, altrettanta si preparava per tornare alle Chiese, che la messa dei morti ci sarebbe stata.
E come le formiche alle sette della sera prima, cosi entravano nelle Chiese a notte fonda, ma a mani piene di olio, pane, farine e tanto ben di Dio che lasciavano all’altare, cosi che i preti avrebbero aperto le porte del paradiso per i loro defunti.
Chi non ci andava i preti li criticava, li accusava che quella roba l’avrebbero conservata in qualche ripostiglio, e qualcheduno aveva ragione, ma pur vero era che dovevano sfamarci anche quelle povere figliole che dalle suore dimoravano.
All’alba, mentre quelli in Chiesa rientravano, quelli rimasti a casa si svegliavano.
Ciò che avevano messo a tavola la sera prima li avrebbe saziati per devozione e per quelle anime del Purgatorio che chissà se erano passate.
Si partiva per la campagna, chi avrebbe cominciato la raccolta delle olive, ma prima si sarebbero fermati al cimitero per salutare i propri cari.
Arrivati agli olivi, preparato il tutto, con verghe o inginocchiati a scegliere quelle cadute a terra, “in nome di Dio” avrebbero cominciato, e il giorno dei morti come niente sarebbe passato.



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MUSIC CLUB, la discoteca

Questa che stai per leggere è un esclusiva di
Chiaromonte e le sue Storie





MUSIC CLUB
La discoteca
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Di Arturo De Salvo
e G.D. Amendolara



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Storia inserita in Archivio > Chiaromontesi raccontano





"è stato bellissimo, un emozione indescrivibile"
Arturo De Salvo
cofondatore del MUSIC CLUB




Era il 1976...

Chiaromonte,
Luciano e Arturo sono due ventenni.
Figli di famiglie stimate e di quel 68 e della sua rivoluzione culturale.
Belli, solari, abbigliamento impeccabile, amati e amanti della buona compagnia.
Sono gli anni in cui Chiaromonte subisce la piaga dell’emigrazione di massa verso le città industrializzate.

Luciano, Rocco, Giovanni e Arturo

Arturo e Luciano però sono rivoluzionari e decidono di rimanere, perché amano il loro paese e su di esso puntano per il loro futuro seguendo le orme dei loro padri, l’uno macellaio e l’altro falegname.
Parte della compagnia.
In piedi: Vito Cerabona, Luciano, Mario Martino, Arturo
In ginocchio: Mimmo Vitale,
Giannino Landi, Giovanni Percoco
Insieme a Rocco e Giovanni formano un quartetto inseparabile, appartenente ad una numerosa compagnia che conquista paesi e cuori con il suono dei rombi delle loro bellissime auto e moto sportive, e della chitarra di Luciano che alimenta sia l’allegria che li caratterizza, perché amanti della buona musica, e sia il desiderio di realizzare qualcosa di alternativo per divertirsi e far divertire oltre le solite e classiche serate in casa, in grotta, nei bar o fuori paese. Un posto dove proprio la musica sarebbe stata da appiglio per socializzare.

Vengono chiamati in causa anche i due amici.
Pochi soldi in tasca ma tanta voglia di realizzare.
La fortuna si schiera dalla loro dalla loro parte.
Trovano un locale a titolo gratuito ma solo se lo avessero rimesso a nuovo a loro spese.
Acquistano solo i materiali necessari, ingaggiando un muratore che per saldare i debiti col proprietario lavorerà per loro senza retribuzione, e per risparmiare e velocizzare sui lavori i due lo affiancheranno come manovali che, talmente frettolosi di vedere finito il tutto, spesso e volentieri impasteranno più cemento di quanto potesse servirne al momento, cosi da rimanere ogni sera fino a ora tarda.

La notizia si espande per tutto il paese. 
Una novità accolta più che bene, tanto che la partecipazione di molti meraviglia i quattro amici. 
Da Torino, addirittura, arrivano secchi di colore per ultimare i lavori, e da molti paesani vengono donati gli LP e le piastre per poterli ascoltare.
Anche l’iter delle documentazioni viene ultimato.
Vogliono che sia tutto rigorosamente in regola, perché sognano e guardano avanti… molto avanti.
Per il sostentamento delle spese avviano una campagna tesseramenti.
Sarebbe stato un Club, il MUSIC CLUB, la prima discoteca di Chiaromonte.

Arturo e Luciano in posa per un book fotografico
di Franco Scardaccione

Agosto 1976.

Il giorno dell’apertura ufficiale arriva, ed è il delirio.
Arrivano a decine anche dai paesi limitrofi.
Centinaia le tessere sottoscritte, per soli maggiorenni, mentre ragazzini e ragazzine avrebbero dovuto accontentarsi restando a due passi dall’entrata e sognare di crescere in fretta per poter farne parte.
Luciano e Arturo si occupano della gestione, dell’accoglienza e dell’intrattenimento.
Le ragazze (soprattutto della scuola infermieri presente in paese) attendevano di poter avere la loro attenzione, e quando accadeva, Giovanni alla consolle faceva partire un pezzo dalla lunga durata, spesso dei Pink Floyd, mentre Rocco al banco si occupava della mescita delle bevande.
Tutto si aspettavano ma non il successo che stavano ottenendo e, soprattutto, l’accoglienza di un paese che ancora viveva sotto una mentalità legatissima al passato.
Il MUSIC CLUB diviene praticamente la loro casa, dove passano ogni minuto libero del loro tempo.
Organizzano feste di ogni genere, anzi, è meglio specificare che la dentro è sempre festa.
All’arrivo del capodanno di quell’anno, sempre il 1976, organizzano il veglione. Una serata indimenticabile e finalmente alternativa che scatena la scintilla per muovere i passi successivi per realizzare quei sogni presenti sin dall’apertura.
Il MUSIC CLUB meritava di crescere e diventare una discoteca a tutti gli effetti.
Dedicano tutte le loro attenzioni a quella “creatura”, raccogliendo meritatamente i frutti dei loro sacrifici. Ma la vita, si sa, quando meno te lo aspetti e mostra il suo lato duro e ingiusto.

Luciano
È la notte del 6 febbraio 1977.

Dopo una tranquillissima serata passata insieme, gli amici fanno rientro alle loro case, inconsci che da li a pochi minuti tutto sarebbe cambiato.
La vita di Luciano si spegne improvvisamente a soli 21 anni.
Distrugge dal dolore la famiglia e la compagnia, e colpisce in pieno il paese intero, perché amato da tutti.
Da quel momento nulla fu più come prima.
I tre amici cercano di ricominciare, ma non aveva più senso senza Luciano, loro amico e fratello. Il MUSIC CLUB aveva perduto la sua vera anima, e la sua porta viene chiusa.
Di lì a poco Rocco lascia Chiaromonte.
Arturo e Giovanni restano, divenendo imprenditori di successo, l’uno continuando con la macelleria di famiglia e l’altro nell’edilizia.

Passano pochi anni dalla sua chiusura. 
Un gruppo di ragazzi cerca di ricominciare, di dare nuova vita alla discoteca, ma quel locale aveva perduto i suoi quattro cuori pulsanti, e la sua porta si richiude pochissimo tempo dopo, e per sempre.

È una storia breve quella del MUSIC CLUB, durata nemmeno sette mesi, ma rimasta nel cuore di tutti, e ne abbiamo raccontato affinché quella bellissima compagnia che conquistava i cuori di persone e paesi a suon di chitarre e rombi di motori possa rimanere viva tra queste righe e nel cuore di tutti e di Chiaromonte.


Chiaromontesi ricordano il
MUSIC CLUB

(dai commenti della passata pubblicazione su Facebook)

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Anna Racioppi
Luciano!!! Carissimo amico d'infanzia. Dolore troppo grande e straziante quando successe la tragedia. Il suo ricordo è sempre vivo nel mio cuore


Maria Giovanna Scalera
Io la ricordo bene ,ci sono andata tante volte,all' insaputa dei miei,guai se sapessero,bei tempi lontani, è stato straziante la perdita inaspettata del povero Luciano,


Claudio Ricciardi
nel 1980 l'abbiamo preso noi, io, Mimmo Sergio, Antonio Bottone e rifacemmo la vecchia discoteca, mettemmo qualche cartone di uova rotto sostituendoli, ma anche con noi durò poco forse 6 o 7 mesi, la sera venivano anche da Senise e Francavilla


Giovanni Viola
Bellissimo ricordo !


Giovanni Lauria
Ricordo bene quel periodo, c'ero anch'io a sistemare il locale ,insieme a Luciano Arturo è qualcun'altro che non ricordo ,Luciano amico buono, e leale ,sempre con il sorriso, tanti i ricordi con lui tutti belli, sempre nel mio cuore  


Giuseppe De Noia
Mi ricordo molto bene nel locale dei Leo tutte le domeniche si ballava c'era più affiatamento ci si divertiva moltissimo


Vincenzo Battista
Con Luciano ci frequentavamo seppure più grande di me perché era amico di mio cugino tiruccio mio mito.. ci scambiavano musica.
Il padre era grande amico del mio


Nunzia Palazzo
Anch’io ci sono stata una volta ….per i miei nonni luogo di perdizione ahah


Ulderico Donadio
Essi' lo ricordo anch'io, venivo a Chiaromonte il sabato mattina e me ne andavo il lunedì. Che bei ricordi in quel localino


Aurelio Sassano
Bel ricordo…


Giovanni Percoco
bel ricordo Luciano un grandissimo mio amico un abbraccio forte dovunque tu sei


Angelomauro Calza
Ehhh... Me la ricordo. Con tutti i cartoni delle uova alle pareti



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'Mbærë ch’è nëvëcætë a Pullìnë


La piazza nel 1986.
Archivio fam. Amendolara Franco



di G.D. Amendolara
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Storia inserita in Archivio > Chiaromontesi raccontano



La sirena delle otto spezzava il silenzio.
Qualche minuto dopo Pasquale il banditore avrebbe informato tutti della presenza degli ambulanti sotto il palazzo degli uffici o in piazza, dove ragazze e ragazzi attendevano Mënguccë col pullmino giallo per recarsi alle scuole medie, mentre bambini frettolosi correvano ad acquistare nei negozi o nei bar la merendina per la ricreazione a scuola.
Donna con fascine.
Frame "Chiaromonte un paese dentro di noi"
©RAI
Poca gente in giro.
Trattori, camion, e treruote pronti a scaricare montagne di legna, portata poi a destinazione da decine di cavalli e ciùccë che nel loro tragitto avrebbero lasciato innumerevoli scie dë cacætë che solo una buona pioggia avrebbe cancellato.
Passata la Madonna, passatë u Sandë, passatë a festë alla veramèndë.
O spæsë cu pëmmëdòrë e fìchë misë a sëccǽ non facevano più da decoro, cosi comë o sàrtë dë zafarænë, che con cipolle, aglio e pomodorini, erano stati appesi a nu cëlëræsë o ‘nd’angunu suttænë arravugliætë con dei fogli di giornale che avrebbero trattenuto l’umidità, e ‘ndo mobbuwë sott’oli, sottaceti e buccaccë a fǽ cumbagnìë a ciò che rimaneva del salame e dell’olio.

Era ottobre.
Tempo di vendemmia in quasi tutte le grotte, che se il tempo non glielo avesse permesso, li avresti sentiti lavorare anche fino a notte tarda.
Il mese che dava inizio a quella calma che avrebbe pervaso un paese con ancora vivi i ricordi di un estate bella e rumorosa appena passata.
Buio presto e strade vuote.
Per vedere qualcuno avresti dovuto intossicarti nei bar di Cacchiònë, Donaddìë o Sarubbë ca fussë, dove mentre noi ragazzini facevamo la fila per giocare ai videogame (sperando che il più furbo non avesse la tasca piena di cento lire), gli amori estivi continuavano ai telefoni a gettoni e le urla dei giocatori a carte si confondevano col fumo di quelle maledette sigarette.

La piazza nel 1980.
Frame "Chiaromonte un paese dentro di noi"

©RAI

La domenica, però, era diverso.
Pochi bar aperti.
Al mattino piazza e passeggio colmi di gente, mentre al pomeriggio toccava ai soli ragazzi, soprattutto quelli che in settimana avevano dedicato il loro tempo agli studi, a differenza degli impavidi dello zampillo, sul luogo assenti solo se ci fosse stato un temporale.
Questo era ottobre allë tièmbë mië, gli anni 80.
Il mese della vendemmia, delle castagne, da ‘lliànnë da coglië, dei funghi e di quel primo freddo all’improvviso che avrebbe fatto esclamare “ 'mbærë ch’è nëvëcætë a Pullìnë " 

Nicholas Launt (Landi)

Nicholas Launt.
Foto Ancestry.com


di G.D. Amendolara
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Storia inserita in Archivio > I grandi Chiaromontesi
e nella rubrica Verso l'America



Quanti ne sono partiti per l'America?
Tanti, e tra loro tantissimi nostri paesani.
In molti sono rientrati. In tanti sono rimasti ed hanno creato li la loro fortuna, e tra questi coloro che nella loro terra non sono più tornati.
Questa che racconto è la storia di Nicola Landi, registrato a New York come Nicholas Launt, perché all’epoca in molti all'anagrafe Newyorkese non avevano voglia di scrivere correttamente il cognome (trascrivevano quello che capivano).
Il nome invece lo americanizzò, come facevano in molti, per ambientarsi e anche per dire grazie a quella terra che gli regalava quella fortuna che quella natìa non le aveva dato.
Mentre iniziava la sua avventura oltre oceano, perse tragicamente la famiglia in paese a causa di un epidemia, ma non si arrese e andò dritto per la sua strada.
Cominciò come operaio nella O&W railroad, contribuendo alla costruzione della linea ferroviaria che univa varie zone dello Stato di New York. Seppe farsi notare per la dedizione al lavoro, tanto che gli fu chiesto se vi erano altri suoi paesani disponibili a lavorare in quel progetto. Avevano bisogno di gente della sua stessa personalità, quindi di altri Chiaromontesi.
Ne arrivarono molti, che prese sotto la sua protezione, e che diedero l’aiuto più grande per la realizzazione del progetto.
Oltre al cantiere, dedicò il suo tempo anche ad altre attività tra cui un negozietto nella sua casa, dove vendeva prodotti italiani importati, permise a molte donne di poter produrre il pane italiano costruendo dei forni e aprì addirittura una filiale bancaria che gestiva con la moglie, dove aiutava i suoi paesani e gli italiani a gestire i propri soldi.
Grazie a tutto questo suo da farsi avrebbe dovuto vivere nel lusso, ma rimase umile, perché il suo unico interesse era poter vedere felice e soddisfatto chi come lui sacrificava la propria vita per poter vivere dignitosamente.
In tutto questo non dimenticò mai casa sua, Chiaromonte, ma non potè tornarci tante volte quanto voleva.

© Walton Historical Society


Sposò Rose, che scomparve giovane, con la quale ebbe tre figli. La seconda divenne la prima italiana a laurearsi a Walton.
Si pensionò dopo 50 anni di onorato servizio nell’azienda ferroviaria, e visse tranquillo fino alla fine dei suoi giorni.
Si spense serenamente il 13 maggio del 1945 all’età di 86 anni.

Nicholas anziano.
Foto Ancestry.com
La comunità Chiaromontese a Walton, la più numerosa negli Stati Uniti, ha saputo rendergli onore e lo ricorda ancora.
Nicholas ha portato in quella terra tutto quello che la sua le aveva insegnato: sacrificio e amore. 
Ricordarlo è un gesto di riconoscenza non solo verso un Chiaromontese, ma soprattutto verso un grande Uomo.

Racconta così Eleanor Belmont nel suo meraviglioso libro “From Chiaromonte to Shepard Hill”, dove racchiude la storia dei nostri paesani a Walton.

Potete acquistarlo qui: https://www.waltonhistoricalsociety.org/whs-store/chiaromonte-jpg-257x398-pixels/





Fonte: From Chiaromonte to Shepard Hill, di Eleanor Belmont.
© WALTON HISTORICAL SOCIETY




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Verso l'America

Questa che stai per leggere è una storia esclusiva di
Chiaromonte e le sue Storie





di G.D. Amendolara
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Storia presente in Archivio > Verso l'America



Raffaele Vergallito insieme alla moglie e al figlio John


Arrivava in piazza.
Era l’uomo che, pagato dalle compagnie navali, pubblicizzava le partenze per l’America, la terra dei sogni.
Lo circondavano a centinaiae e si lasciavano ammaliare dalle sue parole che davano speranza, quella che tra le quattro mura del paese pareva affievolita, e a tratti del tutto spenta.


Chiaromonte 1870 circa



Povertà e speranza


Chiaromonte, ultimo trentennio dell’800.
L’unità d’Italia non giovò al nostro piccolo paese.
Seppur già sofferente prima del 1861, il post ebbe un risvolto quasi catastrofico.
Documentazioni, libri storici, articoli di giornale e testimonianze tramandate descrivono il livello impressionante della povertà, nonostante l’artigianato e l’agricoltura forti nel loro settore, e una classe politica di alto livello, con famiglie disperate pronte a “donare” i loro figli ai benestanti che pur diventando schiavetti avrebbero avuto l’opportunità di avere un pasto caldo e un letto dove dormire, e di gente che non aveva nemmeno uno straccio costretta a girare nuda per il paese.
No: ciò che sto raccontando non è menzogna, è ciò che si viveva realmente tra le mura e nelle campagne del nostro paese.
La speranza però, si sa, è sempre l’ultima a morire, e quella voce ne riaccese la luce in tantissimi nostri paesani.


Verso l’America


L'unica foto della nave Idaho

Per l’acquisto del biglietto ricorrevano a prestiti o vendevano tutto quello che possedevano.
In Francia, Inghilterra o Belgio i primi porti da raggiungere per l’imbarco. Solo qualche anno dopo si potè partire da Napoli o Palermo.
Raggiungere la nave sarebbe stato nulla confronto alla traversata dell’oceano, con la durata di quasi due mesi negli anni 80 dell'800, tutti appollaiati con le altre centinaia di persone della terza classe, con il rischio di essere infettati da epidemie che sulle navi si espandevano e provocavano anche numerosi decessi.
Unica destinazione New York, dove avrebbero trovato chi per loro garantiva.
Le navi dirette in Sud America arrivarono poi, ma utilizzate da pochi a causa degli alti prezzi dei biglietti.
Il primo arrivo ad oggi certificato risale al 1873 su una nave carica di 2000 anime pronte a cambiare la propria vita.
Di Chiaromontesi 12, tutti uomini, ed ecco i loro nomi:


Foglio di imbarco originale



Arrivo 05 novembre 1873

Nave Idaho
Destinazione New York

Giuseppe Amendolara
? Amendolara
Domenico Lista
Giovanni Donadio
Nicola Donadio
Andrea Donadio
Nicola Dragonetti
Paolo Lombardi
Nicola De Palma
Raffaele Arbia
Giuseppe De Palma
Vincenzo Donadio



AMERICA!


John De Tommaso (a sinistra),
insieme al nipote.
Da notarsi la sua pelle scura,
classica colorazione di molti meridionali
che ne causava attacchi razzisti
Il primo impatto non fu per niente simile a ciò che quella voce aveva tanto pubblicizzato convincendoli a partire.
Avrebbero dovuto resistere, subire, sopportare e affrontare una situazione non diversa da quella del paese, in certi versi anche peggiore, svolgendo perlopiù lavori che sapevano fare, quindi carpenteria, pastorizia e agricoltura, con la sola differenza del guadagno, per niente paragonabile alle paghe dei padroni del paese.
Dal loro arrivo agli inizi del 900 molte cose cambiarono.
Riuscirono finalmente a ricongiungersi con le loro famiglie.
Acquistarono case o appartamenti, decine di loro avviarono attività commerciali e qualcuno divenne benestante, tanto che a Chiaromonte potè tornarci tutte le volte che voleva portando con sé la sua macchina di lusso americana.
Michael Maltese

Con le seconde generazioni, nati o cresciuti, si raccoglieranno i frutti dei sacrifici dei loro padri e delle loro madri, con l’integrazione nella società americana che porterà molti di loro a divenire uomini e donne di successo, dalla medicina all’esercito, dall’imprenditoria al mondo dello spettacolo e dello sport, citando le due personalità più importanti, Michael Maltese e Nicola Guillermo Ferrara, il primo uomo di punta della Warner Bros. e il secondo calciatore di successo a livello mondiale, vincitore di uno scudetto italiano e titolare nella nazionale.





John Vergallito, Chiaromontese di seconda generazione,
veterano nel Vietnam morto in battaglia.
Sono tantissime le storie di Chiaromontesi arruolatisi nello US Army, sin dalla prima guerra mondiale, dove si sfruttava la causa per facilitare la naturalizzazione.



La via sbagliata

Cialì
Cialì, al secolo Giovanni Breglia, purtroppo è il Chiaromontese-Americano più famoso.
Si racconta che sia stato assoldato dalla mafia italo-americana e,addirittura, che sia stato autista di Al Capone. Che sia vero o no, non è l’unico paesano ad aver preso la via sbagliata.
Tra le pagine di cronaca nera impresse nella storia troviamo come protagonista Domenico Cataldo, o meglio, colui che venne ucciso da Maria Barbella, la prima donna condannata alla sedia elettrica (per fortuna graziata) che da testimonianze dell’epoca si sospettava facesse parte della mano nera, la madre della mafia italoamericana.
Si narra anche di altri soggetti che in America si facevano rispettare con la mano dura, tra i quali il poco conosciuto Fallìnë (soggetto temuto anche in paese e nei dintorni) e anche di un personaggio che a New York riuscì a non fare abbattere la propria casa durante la costruzione di alcuni grattacieli, e, a come si racconta, con metodi poco ortodossi.




Americanizzati


Basterebbe guardare il film Il Padrino 2 per capire come andavano le cose al momento della registrazione allo sportello di Ellis Island.
Mentre il nome veniva automaticamente “americanizzato”, il cognome spesso e volentieri veniva scritto cosi come lo pronunciavano, rigorosamente in dialetto, perché l’italiano non lo parlavano.
Ecco citati alcuni esempi:

Amendolara > Mentolary – Mentler (in dialetto Mënnulærë, Mëntolærë)
De Noia > De Noto – Noto (DëNòië)
Vozzi > Watts (Vòzzë)
Landi > Launt (Làntë)
Di Tommaso > Thomas (DëTummæsë)
De Nucci > Neutts (Do Nùccë)
Cuccarese > Ciuccarre (Cuccarèsë)
Vergallito > Rigoli



La Madonna della Pace


La prima guerra mondiale con le sue 40 vittime Chiaromontesi, segnò indelebilmente gli animi di tutti, in paese e fuori.
Alla fine della guerra la storia del “miracolo” della Madonna della Pace arrivò anche oltreoceano, entusiasmando non poco i nostri emigranti, tanto che spinsero affinchè avesse avuto la festa che meritava.
Grazie anche alla sua parentela con Giuseppe Vozzi, allora procuratore delle feste religiose, a prendersi incarico della raccolta dei fondi fu Vincenzo Arbia che, con i suoi collaboratori di altre città, per almeno 15 anni raccoglievano e inviavano migliaia di dollari destinati alla solenne celebrazione.
Contemporaneamente vennero raccolti fondi per il completamento del monumento ai caduti, fino ad allora composto della sola cancellata e della statua celebrativa.





Walton, la piccola Chiaromonte


La richiesta di manovalanza per il completamento del passaggio ferroviario nel Delaware, nello Stato di New York, attirò decine di nostri paesani.
Attratti dal posto, fuori dal caos della Grande Mela, si stabilizzarono nella piccola cittadina di Walton.
Nel giro di qualche anno ne arrivarono altri sino a divenire la comunità più numerosa.
Nonostante l’integrazione, in controtendenza ai nostri paesani abitanti in altri posti, formarono la più grande comunità Chiaromontese in America, la little Chiaromonte di oltreoceano, tramandando usi, costumi e tradizioni del paese natio.

Un attività commerciale dei Chiaromontesi a Walton

Le loro storie sono raccolte nelle pagine del libro “from Chiaramonto to Shepard Hill” di Eleanor Belmont, e dopo quasi 150 anni e diverse generazioni passate, restano un gruppo compatto che, nonostante abbiano perduto il tramandare delle tradizioni, si sentono ancora e sempre Chiaromontesi.



Arrivi e partenze


La ricerca si basa sui soli viaggi via nave avvenuti tra il 1873 e la fine del 1930.
Gli unici anni senza partenze sono stati quelli della grande guerra, e negli anni a seguire si nota un brusco calo dovuto soprattutto alle leggi di regolamentazione sull’immigrazione negli Stati Uniti d’America.
Nel cinquantennio migratorio sono ben 900 i Chiaromontesi partiti, divisi negli anni tra USA, Argentina, Uruguay e Brasile, con forti concentrazioni nelle citta di New York, Buenos Aires, Caracas e San Paolo.
A tornare indietro furono pochi, all’incirca il 10%, tra i quali troviamo qualche accusato di fascismo, chi con documenti non in regola e chi aveva mantenuto la promessa di guadagnare dollari per tornare al paese e ricomprare ciò che aveva venduto e anche altri terreni per far vivere dignitosamente la propria famiglia.

Matrimonio di Chiaromontesi in Argentina



Epilogo


Nel 1999 cominciai a cercare notizie sulla mia famiglia, dando vita all’albero genealogico degli Amendolara.
La nascita, crescita e residenza a New York del mio bisnonno Vincenzo mi spinse a cercare i miei famigliari negli Stati Uniti, e dal 2007 decisi di investire sulla ricostruzione della lista dei Chiaromontesi partiti per l’America.
Una ricerca che ad oggi raccoglie 300 fogli di imbarco, storie, documentazioni, fotografie e soprattutto la riunione tra Chiaromonte e i Chiaromontesi altrove.
L’unico rammarico è quello di non essere riuscito ancora a ricostruire per intero la lista di chi ha voluto raggiungere l’America Latina, in quanto le documentazioni sull’emigrazione sono spesso in mano alle Chiese, quindi difficilmente reperibili se non sul posto.
Ho voluto sintetizzare il più possibile sui nostri emigrati.
Se dovessi parlarne per esteso non basterebbe questo blog, e spero un giorno poter condividere con tutti voi nel dettaglio questa mia esperienza affinché la nostra storia, compresa quella dei nostri paesani nelle Americhe, possa vivere per sempre.


Storie correlate 

Link

Fonti:

Archivio storico Chiaromonte e le sue Storie
From Chiaramonte to Shepard Hill, di Eleanor Belmont
Ancestry.com

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