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Giovanni Favoino Di Giura - Un Chiaromontese nel Mondo

Di Lucio Vitale
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Inserita in Archivio > I grandi Chiaromontesi


Favoino Di Giura, la voce degli italiani oltreoceano
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Il nobiluomo di Chiaromonte con la passione per il giornalismo



CHIAROMONTE Chissà cosa avrebbe da dire oggi sui problemi italiani, come la Casta politica, il forte divario tra Nord e Sud, e ultimamente perché no, su questo governo, e tanto altro ancora, un signor Giovanni Favoino Di Giura, che da giornalista “purosangue” ha raccontato oltreoceano 50 anni d’Italia, compreso 2 guerre mondiali.
Una lunga storia la sua che merita di essere conosciuta.
Nobile di stirpe, Giovanni nacque a Chiaromonte il 26 aprile del 1885 ed era figlio di Vincenzo Vittorio Favoino e Matilde di Giura, dei “baroni Di Giura”, zia, per intenderci, di quel Ludovico Nicola Di Giura, colonnello della Marina Militare Italiana che presso la corte Cinese fu medico personale dell’imperatrice Cixi e del piccolo imperatore Pu Yi della dinastia Qing e della sua corte imperiale nei primi del ‘900.
Fin da giovanissimo manifestò la sua passione per la scrittura, scrivendo componimenti poetici sotto il nome di “Giovanni da Forino”, in ricordo del podere che la famiglia possedeva nell’omonima contrada. In seguito scrisse numerosi libri, tra essi "Il carme alla luna" (Casa Editrice Malena, Buenos Aires - 1910), "Frammenti di Giornale" (Tipografia del Riachiuelo, Buenos Aires - 1912), "Gli italiani nella provincia di Entre Rìos" (Artes Graficas, Paranà - 1913), (Pei tipi del Carroccio, New York - 1923 e ristampa della Cocce Press - New York 1940), "Fatalyse" (Romanzo di un amore italo-americano), "Il ritorno alla culla" (Tragedia moderna), "Lo straniero" (Romanzo), "Occhi intenti" (Racconti e poesie) e "Trincea. Con i fanti della Brigata Avellino", in cui scrive della sua esperienza di guerra durante i primi mesi del suo arruolamento fino alla nomina a Sottotenente nel novembre del 1916 e "Antonio Meucci: il vero inventore del telefono".
Proprio su quest’ultima opera, Giovanni ripercorre la vita e tutte le tappe che portarono Meucci a realizzare la sua grande invenzione, ponendo l'accento su quegli elementi a favore dell'inventore italiano nell'annosa vicenda che lo vide contrapposto ad Alexander Graham Bell riguardo alla paternità del telefono.
L'opera, contiene documenti anche inediti di Meucci, come ad esempio il suo intero testamento che vide la luce in una prima edizione nel 1923 e fu poi ristampata nel 1940 con il titolo "Il vero inventore del telefono: Antonio Meucci". Una passione viscerale per la letteratura, ma che l’ho spinse ad intraprendere nuove strade diventando avvocato. Frequentò, infatti, il liceo classico "Archita" di Taranto, mentre nel 1906 si laureò in giurisprudenza presso la Regia Università degli Studi di Napoli "Federico II", con il massimo dei voti.
Terminati gli studi accademici, si trasferì a Roma, dove iniziò ad esercitare la professione di avvocato civilista. In quegli anni, accanto agli impegni professionali, Giovanni, iniziò a coltivare la passione per il giornalismo. Tale si rivelò l'amore per la carta stampata che decise di affiancare all'attività forense anche la professione giornalistica.
Fece il suo esordio come pubblicista per il quotidiano romano "Il Messaggero", con il quale collaborò durante gli anni vissuti a Roma. Dopo l'esperienza giornalistica capitolina, sempre più desideroso di allargare i propri orizzonti culturali e professionali, nel 1910 decise di emigrare a San Paolo del Brasile ove, direttore di un quotidiano in lingua italiana, condusse per circa due anni delle inchieste sulla condizione degli italiani nello Stato del Paraná
Successivamente si trasferì in Argentina, nella capitale Buenos Aires, per occuparsi in qualità di caporedattore della redazione de' "La Patria degli italiani", tra i quotidiani in lingua italiana di maggiore importanza tra quelli pubblicati fuori dalla madrepatria.
All'indomani della dichiarazione di guerra del 24 maggio 1915, Giovanni rientrò in Italia.
La targa commemorativa, affissa alla torre Di Giura, in
memoria della ingiusta prigionìa del padre Giuseppe, e
degli zii Giosuè e Domenico

Un passaggio importante da rilevare e che Giovanni era cresciuto con le ideologie patriottiche del nonno materno Giuseppe Di Giura, che partecipò ai moti carbonari del 1848 e che arrestato nel 1849, fu condannato dalla Gran Corte speciale di Basilicata a 7 anni di ferri. Scontò una parte della pena nelle galere borboniche di Nisida e di Procida e successivamente, nel 1854 fu trasferito nel carcere di Chiaromonte, ove si spense il 6 ottobre 1856 in nome della libertà e l’unità d’Italia. Sorte diversa per i fratelli Giosuè e Domenico.
Il primo, scagionato da tutte le accuse morì a Napoli nel 1844 e il secondo, Domenico, sacerdote letterato, affiliato alla “Giovane Italia”, arrestato nel 1851, ottenne l’indulto e fu liberato nel 1852 e fu sottoposto a vigilanza speciale nel suo paese (Chiaromonte) dove si spense nel 1882. Il ricordo dei racconti della madre Matilde, che gli narrava le patriottiche avventure del nonno Giuseppe e degli zii Giosuè e Domenico, fece nascere in lui il desiderio di servire la Madre Patria. Giunto in Italia, infatti, si arruolò volontario nel Regio Esercito nell'agosto del 1916 per prendere parte alla Prima guerra mondiale, come ufficiale di fanteria. Il suo reclutamento avvenne tra le file del 231º Reggimento della brigata "Avellino", costituita il 6 maggio 1916 e comandata dal Generale di Divisione Antonino Cascino. Giovanni Favoino Di Giura si distinse in particolar modo durante le operazioni belliche, condotte quasi esclusivamente in trincea, per la conquista dell'avamposto sul Monte San Michele di Gorizia, caposaldo del possente fronte di guerra predisposto dalle linee militari austriache. La guerra finì e Giovanni lasciò nuovamente l'Italia per trasferirsi a New York.
Giunto nella “Grande Mela”, Giovanni Favoino Di Giura iniziò la collaborazione con la rivista "Il Carroccio", mensile di cultura e difesa italiana in America. Nel 1924, fondò e diresse il mensile in lingua italiana "Il Vittoriale", i cui uffici avevano sede al 176 di Worth Street, sulla Second Avenue, nel cuore di Manhattan. Entrato in contatto con i più influenti rappresentanti della comunità italiana d'America, divenne in breve tempo un importante riferimento per tutti coloro che all'epoca si impegnavano per fare della propria italianità motivo di orgoglio. In quegli anni, oltre all'impegno editoriale, fu affascinato dal potere mediatico della radio, tanto da voler provare l'esperienza di giornalista radiofonico. Ebbe tale opportunità nel 1939, quando venne chiamato a commentare le news per gli italo-americani dagli studi di radio WBIL, una delle più conosciute tra le emittenti cattoliche newyorkesi di proprietà del notabile Angelo Fiorani (Fiorani Radio Productions Records), le cui trasmissioni avvenivano direttamente dalla chiesa di Saint Paul Apostle. Quelle che inizalmente sembravano sporadiche comparse nel mondo del giornalismo radiofonico, divennero per Giovanni un'opportunità per la divulgazione di massa dei concetti di integrazione sociale, politica ed economica da lui ritenuti fondamentali per la realizzazione di quella che considerava "una doverosa rivalutazione del prestigio storico e culturale dell'italianità", che rendesse giustizia a tutti gli immigrati italoamericani. Questi erano fortemente discriminati per i dilaganti pregiudizi diffusi dalla crescente propaganda nazionalista. Tali ideologie venivano espresse in apposite rubriche di approfondimento giornalistico, il cui autore era lo stesso Favoino di Giura, che così facendo richiamò l'attenzione, oltre che della comunità italoamericana, anche della critica socio-politica della metropoli, la quale gli tributerà una citazione nell'annuario dell'American Academy of Political and Science in un articolo di Clyde R. Miller del 1941, per il contributo dato all'aggregazione ed allo sviluppo sociale e culturale della comunità italiana in America. Frequentando i salotti dell'alta società newyorkese, strinse amicizia con personalità illustri di origine italiana della politica, della cultura e dell'arte, tra cui il pittore Arturo Noci, che realizzò l'acquerello successivamente utilizzato per la copertina del libro "Occhi Intenti", il tenore Beniamino Gigli, la star radiofonica Ubaldo Guidi Buttrini, il Barone Osvaldo Cocco, il lucano Giovanni Riviello, direttore de "La Basilicata nel Mondo" e de "Gli Italiani nel Mondo", il Vicenconsole De Cicco e l'influentissimo magnate dell'edilizia e dell'editoria Generoso Pope, proprietario di testate giornalistiche quali il "Bollettino della sera" (sul quale Favoino di Giura pubblicò diversi suoi articoli), "Il corriere d'America", "L'opinione" ed il più blasonato "Il Progresso Italoamericano". Erano gli anni che precedevano lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e Giovanni Favoino Di Giura fu nominato Direttore de "Il Progresso Italoamericano" (dal 1988 divenuto "America Oggi"), storico quotidiano newyorkese in lingua italiana, da sempre testimone e voce dell'emigrazione negli Stati Uniti. La comunità italiana della Grande Mela, pur essendo in una fase di rapida espansione, non aveva ancora un rappresentante che ne tutelasse gli interessi e che si facesse portavoce nello scenario politico che si andava configurando negli Stati Uniti. Con il suo ingresso nel giornale, Giovanni, diede nuova linfa alla direzione del giornale, raggiungendo all’epoca, la vetta delle vendite con una tiratura di oltre 90.000 copie diffuse. Lo spirito era tutto incentrato sulla promozione dell'identità, della cultura e della storia degli italoamericani, affinché ogni italiano prendesse coscienza delle proprie potenzialità e le mettesse in campo per stringere un legame sempre più forte con le istituzioni, in altre parole, Giovanni, credeva nella necessità di avere dei rappresentanti politici di origini italiane nel governo americano a tutela della stessa comunità e delle generazioni che ne sarebbero seguite. Chiaramente la linea editoriale data da Giovanni a “Il Progresso italoamericano” attirò l’attenzione delle “Intelligence” come l’Fbi, che, soprattutto all’acuirsi delle tensioni che a breve sarebbero sfociate nella Seconda guerra mondiale, vedevano nella testata giornalistica da lui diretta, così come in altre iniziative editoriali capitanate da altri italiani, un mero strumento di propaganda d'oltreoceano al regime fascista. In quest’atmosfera di pregiudizi e di fobia irrazionale, Giovanni, insieme ad altri innumerevoli esponenti della comunità italoamericana di New York, venne internato per diversi mesi con il solo scopo di sopire le crescenti paure delle autorità militari americane nei confronti degli immigrati italiani. Per fortuna in difesa della comunità italoamericana, rastrellata quotidianamente dalla polizia, intervenne il Presidente Roosevelt in persona, consentendo a Giovanni, e a molti suoi connazionali di riacquistare la proria libertà. Lo stesso Roosevelt, in seguito, ricevette alla Casa Bianca una rappresentanza di italoamericani tra i quali il Favoino di Giura. Dopo l’infausta esperienza dell'internamento, Giovanni si trovò di fronte ad un radicale mutamento nella struttura sociale delle comunità italoamericana e delle ideologie che, fino ad allora, avevano accompagnato il suo operato professionale in terra d'America, sempre e comunque condizionato dagli avvenimenti socio-politici della madrepatria. Nell'Italia degli anni '40 il regime fascista si disgregò e andò affermandosi il partito della Democrazia Cristiana che, partecipando al Comitato di Liberazione Nazionale, assunse la veste di fazione politica moderata, vicina alla Chiesa e alquanto vaga nei confronti della Monarchia. I giornali italoamericani, stimolati dal Governo degli Stati Uniti che temeva per una vittoria del Fronte Democratico Popolare durante le elezioni politiche italiane del 1948, approntarono un’incisiva campagna elettorale rivolta ai cittadini residenti in Italia perché non votassero per i gruppi politici filosovietici. Migliaia di italoamericani furono invitati a scrivere lettere ai propri cari in Italia, per spingerli a votare a favore dei canditati democristiani, considerati come amici leali dell'America. Questa manovra dell’amministrazione Truman, che successe a Roosevelt nel 1945, non piaceva a Giovanni che, non identificando nella Democrazia Cristiana un valido deterrente alle mire espansionistiche dell'Unione Sovietica sull'Europa Occidentale, considerava il Partito Monarchico e il Movimento Sociale Italiano quali unici partiti dal “contenuto di purissima idealità nazionale e la sola vera antitesi del comunismo”. Per tali divergenze ideologiche, Giovanni abbandonò la direzione de "Il progresso Italoamericano" per passare al quotidiano "Il Popolo Italiano". Questo fu l’ultimo giornale dove lavorò, prima di ritirarsi e passare gli ultimi anni della sua vita in privato con la sua famiglia. Si sposò 2 volte, ma su entrambe le mogli si hanno poche notizie a riguardo. Dalla prima moglie, Fanny Bignani dei Conti della Scala ebbe due figli (Enzo Vittorio e Matilde), ma divorziò. La seconda moglie fu l’ereditiera Maria Nilles, dalla quale ebbe il terzo figlio (Gabriele). Dopo alcuni anni trascorsi con la nuova famiglia nel Granducato lussemburghese, Giovanni rimase poco dopo vedovo della seconda moglie, e decise così di rientrare in Italia per stabilirsi definitivamente a Chiaromonte, dove era nato e dove morì il 29 novembre del 1967 all’età di 82 anni. Di Giovanni Favonio Di Giura rimangono 2 eredità, quella civile e quella privata: La prima, quella che ogni concittadino dovrebbe cogliere leggendo questa sua straordinaria vita e quella che anche da un piccolo paesino del sud della Basilicata tutti noi possiamo aspirare a grandi traguardi personali se crediamo veramente nelle nostre passioni e nelle nostre idee. Da qui possiamo coniare il motto «Non c'entra da dove veniamo, ma cosa valiamo e cosa vogliamo fare nel mondo». L’altra eredità di Giovanni, quella “genetica”, riguarda la sua progenie, una famiglia stimata e ben voluta da tutti, professionalmente impegnata anche fuori dai confini strettamente lucani, ma ben legata da un cordone ombelicale al proprio paese, Chiaromonte, che portano nel loro cuore e dove passano sempre le loro vacanze. Ecco perché la figura di Giovanni, a ben 45 anni dalla sua morte, merita più che mai di essere ricordata, e perché no, essere da esempio di stile e di vita da tramandare con orgoglio anche alle generazioni future di Chiaromonte.



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U viërnëdì Sàndë

Gesù morto. Statua degli inizi del XX sec.
Chiesa San Tommaso - Chiaromonte
Foto: Ministero Beni Culturali



Di Pinuccio Armenti

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Pochi giorni fa mi soffermai a parlare di quando in una delle processioni del venerdì Santo, furono fatti uscire due statue del Cristo morto, che alla fine sarebbe toccato alla chiesa di San Tommaso, ma per dispute storiche, anche San Giovanni portò il suo, oltre che la statua dell’Addolorata.
Ovviamente, non mi soffermo nel fare i nomi dei parroci, anche perché conoscete la storia e anche i diretti interessati, e questa accadde quando ero già in Germania.
Ai miei tempi si viveva in grande armonia i giorni della settimana Santa.
Il venerdi Santo la Chiesa Cattolica copre tutte le rappresentazioni grafiche e scultoree del Cristo con un velo viola come segno di lutto, ed anche a Chiaromonte era cosi.
Noi chierichetti, subito dopo pranzo, ci radunavamo in chiesa, e tutti muniti di na tròccuwë.
Quella della parrocchia era lunga almeno 80 cm. Aveva ad ambo i lati delle specie di maniglie in metallo che come le muovevi usciva un rumore fortissimo, ed infatti, per suonarla, bisognava essere in due.
Le tròccuwë rimpiazzavano le campane che sin dal giovedì sera erano state messe al silenzio in segno di lutto.
E allora si cominciava.
Si partiva da San Tommaso, e io appartenevo alla sua chiesa, e si passava pu tëmbònë, a chiazzòllë, alla tèmbë fino sopra u mùrë da pòrtë, nàndë a putèghë dë màstë Luiggë Mustàzzë.
Se non ricordo male, anche la vecchia caserma apparteneva a San Tommaso.
I chierichetti di San Giovanni, nel mentre, facevano i loro vicinati.
E ca tròccuwë ca sunævë, almeno per un paio d'ore, urlavamo come quando si buttava il bando:

“Allë cìnghë tuttë alla prëcëssiònë”.

Poi si tornava in chiesa dove il prete, buonanima, ci faceva trovare delle gazzose e delle aranciate della ditta Ferrara, cosi da poterci dissetare.
Dissetati e con sudore asciutto, eravamo pronti per vestirci.
Sottana, cotta e berretta.
Assummëgliæmmë a tandë prëvëtìcchië, e a dire la verità, n’avandàmmë nu picchë.
Iniziarono cosi le preghiere dinnanzi al Cristo morto, e dopo una mezzoretta circa, finalmente partiva la processione.
Noi chierichetti avanti.
Dopo di noi gli uomini che portavano a spalla la statua, e a seguire il prete e le pie donne, che in chiaromontese chiamiamo o pëzòchë, e a seguire tutti gli altri.
Si pregava e cantava fino all’arrivo al Calvario, dove ci si incontrava con gli altri, quelli della chiesa di San Giovanni che portavano in processione la statua della Madonna Addolorata.
Davanti al Calvario e alle sue cinque croci, si faceva una piccola via crucis.
Madonna e Gesù morto vicini, Era un momento bellissimo. Era come respirare gioia e tristezza nello stesso momento.
Ci si incamminava fino alla piazza dove ci si fermava, per poi rientrare la Madonna nella Chiesa Madre, e il Cristo morto nella chiesa di San Tommaso con i loro cortei. Per noi ragazzi era stato un giorno faticoso, ma pensavamo già al giorno dopo: il sabato Santo. 

Venerdì Santo 2017
Foto Francesco Chiorazzi


 


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