Ottobre 2024 mese dedicato a Zë Giuànnë “u ‘Mbrònë” Cuccarese

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La leggenda de "U Pondë dë Sandë Pietrë"

Stòrië sàccë, e storìë dichë...
(accussì m'ennë cundætë)

di Vincenzo Battista


Foto di Pino Sassano


Ierë u tiembë da guerrë, forsë ù quarandaduië o u quarandatre.
C'erë a tessërë e c'erë a fæmë.
‘Nzommë, ièrë u tiembë dù "ducë ducë comë c'hai fattë rëddùcë, u iuòrnë senza pænë e a nottë senza lucë”.
A fæmë ièrë nègurë e non c'erë nièndë.
Ognëttàntë ièmmë a Mundalbanë a pëgliǽ u grànë dë cuntrabbandë.
Nuië purtàmmë: fichë, pàlë pë u furnë, seggë, anguna zappë, e lorë në davënë u granë.
Së partië da Chiërëmondë primë ca facië nottë, e së cammënævë cu ciuccë pë quattordëcë gorë.
Quannë s’arrëvavë, certë votë së durmië sëdutë a na seggë, po së carëcavë u granë e së turnavë.
Anguna votë së abballavë purë.
‘Ndu mesë dë giugnë stævë turnannë da nu viaggë da Mundalbanë.
Avìë arrevatë appenë doppë a "Tavarnë", primë du pondë dë Sandë Pietrë.
Ierë nottë.
Nu pënsierë m’add arrëvatë ‘ngæpë: "vuojë vëdè ca c'è a landarnë".
Angorë u pondë on së vëdië, ma u ciuccë è ‘ngùmënciætë ad annascǽ.
Èggë àccurtætë u capìstrë, ma u ciuccë òn së calmavë.
Èggë iëssùtë da curvë, e la vëcìnë u pondë c'erë na lucë... Ierë iellë!
M’eggë fattë curaggë, e cu capistrë a curtë tëravë u ciuccë.
Avìë quasë arrëvatë a lu pondë e, a nu certë mumendë, a lantarnë on c'èrë chiù.
Ma pëcchë chiù ‘nnandë c'erë na femmëna tutta vëstuta ianghë, e cu nu canagliònë vëcinë.
Aggë chiàmatë: Uè bella femmënë, ma quellë non rëspunnië. 
Èggë aumendætë u passë ma non arrëvavë mai vëcinë.
Cammënannë, cammënànnë, iellë ‘nnandë e i dëretë, emmë arrëvatë alla gruttë dë l'acquë.
Certë crëstianë stavienë scënnènnë.
Èggë guardætë meglië ma a femmënë e lu canë non c’erënë chiù.


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Traduzione



Era il tempo della guerra, forse il quarantadue o il quarantatre.
C’era la tessera e c’era la fame. Insomma, era il tempo del “Duce, Duce come ci ha ridotti, il giorno senza pane e la sera senza luce”.
La fame era nera e non c’era niente.
Ogni tanto andavamo a Montalbano a prendere il grano di contrabbando. Noi portavamo, fichi, pale per il forno, sedie, qualche zappa e loro ci davano il grano.
Si partiva da Chiaromonte prima che faceva notte, e si camminava con l’asino per quattordici ore.
Quando si arrivava, certe volte si dormiva seduti ad una sedia, poi si caricava il grano e si tornava.
Qualche volta si ballava pure.
Nel mese di giugno stavo tornando da un viaggio da Montalbano. Ero arrivato appena dopo la “Taverna”, prima del ponte di San Pietro. Era notte.
Un pensiero mi arrivò in testa: Vuoi vedere che c’è la lanterna?
Ancora il ponte non si vedeva, ma l’asino comincio a dimenarsi. Ho accorciato le redini ma l’asino non si calmava.
Sono uscito dalla curva, e la vicino al ponte c’era una luce… era lei!
Mi son dato coraggio e con le redini a corto tiravo l’asino.
Ero quasi arrivato al ponte e , ad un certo punto, la lanterna non c’era più.
Poco più avanti c’era una donna tutta vestita di bianco, e con un grosso cane vicino.
L’ho chiamata: Bella donna! Ma non rispondeva.
Aumentai il passo, ma non riuscivo ad avvicinarmi.
Camminando, camminando, lei davanti e io dietro, siamo arrivati alla grotta dell’acqua.
Alcune persone scendevano. 
Ho guardato meglio ma la donna e il cane non c’erano più.


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Postfazione
Di G.D. Amendolara

Non molto tempo fa mi fermai a parlare con un anziana signora, mia vicina di casa.
Tra un discorso e l’altro, come eravamo solito fare, arrivammo a parlare di questa leggenda, della quale fino a quel momento ne avevo solo sentito parlare ma non nel dettaglio.
Mi chiese di fermarmi ancora un pò. Aveva da raccontarmi un episodio che le era accaduto tanto tempo prima.
Da ragazzina, tutte le sere prima di andare a letto, le piaceva mettersi alla finestra e guardare quelle poche luci che un tempo illuminavano le strade o le casine visibili nelle campagne.
Tra tutte queste luci spesso ve ne era una che appariva all’improvviso, proprio a Sàndë Piètrë, e a differenza delle altre questa si muoveva, il che attirava la sua attenzione, sia perché non andava oltre la grotta dell’acqua, e sia perché muovendosi la sua forma non mutava. Vicina o lontana, sopra o sotto, quella era la sua grandezza.
In una di queste sere però si accorse di un evento strano.
Quella luce d’un tratto cambiò i suoi movimenti, uscì dal suo solito fare, e pareva dirigersi oltre la grotta dell’acqua, andando proprio in direzione del paese. Ciò che stupì la povera donna fu che la luce questa volta mutò forma, perché più si avvicinava e più si ingrandiva, “come un flash delle macchinette”, tanto che la impaurì, chiuse finestra e sportellini e si infilò sotto le lenzuola sperando di non ritrovarsela in casa.
Al mattino, impaurita e incuriosita, chiese se anche qualcun altro aveva visto quella luce che da Sàndë Piètrë si dirigeva verso il paese.
Fu lì che scoprì della storia della donna e del cane.
Da quel momento non si affacciò più alla finestra di notte per un bel pò di tempo, perche ne rimase segnatala, tanto che quando lo raccontava esternava ancora la paura, seppur passati molti anni.

Questa leggenda viene spesso, e giustamente, legata alla forte presenza greca nelle nostre zone, quindi anche alla sua mitologia, che vedeva nel suo olimpo anche la presenza della dea Ècate.
La donna che vedevano nei pressi dë Sàndë Piètrë era facilmente ricollocabile alla sua figura, perché con torcia in mano e spesso in compagnia di un cane, dei quali era protettrice e che le erano di compagnia, appariva sempre ai viandanti, spesso per spaventarli o recarli alla morte.
Ma la storia di Chiaromonte è infinita, cosi come lo sono le sue leggende, e di quella luce di storie ve ne sono, tante, e non solo legate alla mitologia Greca.


Sandë Piètrë negli anni 30/40 durante la fiera du Cataruòzzùw 

   Ringrazio di cuore Vincenzo Battista, mio caro amico, per avermi dato opportunità di pubblicare questa leggenda tramandata da una delle famiglie più tradizionaliste e conservatrici del paese, ì mësciarùlë.

La tradizione della notte dei morti


“è di vivë ca t’eia ‘mbaurǽ,
chi muòrtë onn’ènnë mæië
fattë mælë a nësciunë”

Modo di dire Chiaromontese



Questa che stai per leggere è una storia esclusiva di
Chiaromonte e le sue Storie




di G.D. Amendolara
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Storia inserita in archivio > Tradizioni



Primo novembre.
Il fumo già usciva dalle bocche dei camini.
La neve, seppur poca, imbiancava le cime delle montagne.
La vendemmia era terminata. Ci si preparava alla raccolta delle olive, che spesso coincideva con il giorno dei morti.
Come di consueto si sarebbe celebrata la messa per il giorno di Ognissanti, e io e le mie sorelle insieme alla nonna avremmo partecipato, anche perché ci teneva che almeno alle funzioni principali dovevamo essere presenti, e a dire il vero, lo facevamo con piacere.
Arrivammo in anticipo, proprio mentre la Madre Superiora recitava il rosario insieme ai pochi presenti, perlopiù donne.
Noi e la nonna, 1990
Trovammo facilmente posto, ma poco dopo la Chiesa si riempì all’inverosimile, proprio come le domeniche e i giorni di festa, nonostante l’orario.
Terminata la funzione rientrammo, e di li a poco saremmo andati a tavola per la cena.
Passammo la serata nel più semplice dei modi, guardando un film tutti insieme mentre la nonna accanto al camino lavorava ai ferri.
Tutti insieme solitamente andavamo a dormire, come anche quella sera, con la sola eccezione che qualcosa di particolare attirò l’attenzione di noi piccoli.
Pronti per salire alle stanze vedemmo mamma che rimetteva la tovaglia sul tavolo, coprendone però solo una piccola parte. La nonna vi poggiò un piatto, dove mise dei mandarini, delle noci e delle fette di pane, e un bicchiere e una bottiglia di acqua e una di vino.
Infine papà prese la candela che le passò la nonna, l’accese e la fermò con la sua stessa cera colata sul fondo di un mussolini che aveva apposta capovolto.
Curiosi chiedemmo cosa stesse accadendo, se avessimo dovuto rimetterci a tavola, al che la nonna ci spiegò:
“Chissë so cùndë andichë
Stanotte i morti faranno ritorno nelle loro case, dai loro cari, e quando saranno arrivati, stanchi del lungo viaggio, troveranno qualcosa che li sazi cosi da rimettere forza per il ritorno”.

Cosa? Avevamo capito bene? Quella notte i morti sarebbero passati per casa nostra mentre noi dormivamo?
Fu cosi che la curiosità si mutò in paura.
Spensero la luce.
“Pë l’anëmë du Prugatorië”
pronunciò la nonna.
Salimmo, e come saette ci infilammo sotto le coperte, sperando di trovarci protezione da quell’invasione inaspettata e per niente ben accetta.
Al mattino, svegliatici (avevamo dormito come ghiri e come se nulla fosse), scendemmo in cucina pronti per la colazione, e notammo subito che in tavola non c’era più nulla di quello che avevamo lasciato la sera prima. A quel punto Mamma, viste le nostre facce, ci confermò che i defunti erano passati e avevano mangiato e bevuto per poi ripartire.
In quel momento fummo assaliti da un brivido freddo, ma per capire come andarono realmente le cose dovemmo aspettare qualche anno…

Il rito della tradizione dei morti, come si svolge a Chiaromonte (e in gran parte della Puglia e della Calabria) ha origini assai antiche, sicuramente collegata all’invasione romana.
Il banchetto si prepara tra la notte del primo e del due novembre con frutti di stagione, pane, qualche delizia che i nostri cari adoravano in vita e delle bevande, illuminati dalla sola fiamma della candela, e vengono poi consumate al mattino o nell’arco della giornata, pronunciando sempre “all’anëmë du prugatòrië” o “all’anëmë di muòrtë”.
Una famosa frase dice: La tradizione non consiste nel conservare le ceneri ma nel mantenere viva una fiamma.
Questa fiamma a Chiaromonte è quasi estinta.
Chiaromonte e le sue Storie rinnova quest'evento ogni anno, perché tradizione proviene dal latino traditiònem, ovvero consegnare, trasmettere, e questa è la nostra missione, far si che nulla si dimentichi, far rivivere anche ciò che ormai è divenuto cenere, perché senza ciò che è stato, affrontare ciò che sarà diverrà più difficile, e la storia tutto questo ce lo ha insegnato e ce lo insegna ancora, anche a care spese.



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La Madonna della Pace, Santa Protettrice di Chiaromonte

Santino degli anni 40. Proprietà famiglia Amendolara Luigi


di G.D. Amendolara

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Storia inserita in Archivio >  Patroni, Santi e Religione


Nota: La storia della Madonna della Pace è un esclusiva di Chiaromonte e le sue Storie che ne ha ricostruito i momenti riunendo le poche testimonianze ancora vive in paese.



A màstë Iënnærë da Zòppë
un buon amico di famiglia,
un grande Chiaromontese


Questa che sto per raccontarvi è una delle tante storie che ormai a Chiaromonte si stanno perdendo nella bruma dei tempi.
Di quelle religiose o legate ad esse Chiaromonte ne possiede in abbondanza, ma molte di esse risultano essere solamente delle leggende.
Questa è una storia vera, e di grande importanza.
Processione inizi anni 50
La guerra del 15/18, “la Grande Guerra”, vide tantissimi chiaromontesi partire per il fronte, e molti di loro non tornarono mai più dalle loro famiglie, nel loro paese.
La povertà, la fame e la guerra erano qualcosa di spaventoso a quei tempi.
L’unico spiraglio di luce lo si trovava nella preghiera, affinché la guerra finisse così da poter vedere i propri cari rincasare sani e salvi.
I santi venerati a Chiaromonte sono molti, basti contare le varie cappelle presenti nel territorio, e ricordare quelle che non ci sono più.
Ognuna di queste venerazioni ha la sua storia, di cui alcune molto antiche, ma quella che vi racconto con queste righe è unica nel suo genere, e la racconto proprio perché non vada persa.
A quei tempi, Taranto era la più grande fabbrica di navi da guerra della nazione, e anche roccaforte dei territori che la circondavano, tra cui i nostri paesi e parte della nostra Regione.
La guerra però non risparmiò la bellissima città pugliese, che cominciò a subire i primi attacchi, tanto che, essendo visibile dal nostro paese, ciò che accadeva veniva avvertito pesantemente dai nostri paesani.
La statua conservata negli anni 30
La guerra così apparve vicina e reale come non prima, e la paura si realizzò tanto che la pace e la speranza parvero scomparire, fin quando l’allora Arciprete don Raffaele Pozzi, legato al suo paese e ai suoi paesani, pensò bene che era tempo di ridare forza alla speranza, e organizzò una processione con la statua della Madonna.
Era la terza domenica di settembre del 1918.
La statua che fu portata in processione, secondo l’uso consueto di quegli anni, fu molto probabilmente quella dell’Addolorata (una delle più antiche della chiesa) lungo “u mùrë da còstë”(corso Garibaldi) fin dove oggi sorge il Palazzo degli Uffici.
La sistemarono in direzione di quell’orizzonte aldilà dei monti, verso quei fumi, rimando immediato alla tragedia immane della guerra e del loro turbamento. Ebbero cosi inizio le preghiere e le suppliche, così da riporre fiducia e speranza nelle mani della Santissima Madre.
Non passarono neanche due mesi che ciò che tanto desideravano finalmente avvenne: Il “miracolo” della pace.
La Santissima Madre aveva ascoltato i loro appelli. L’agognata fine della guerra arrivò.
Adesso la Vergine meritava la sua festa, in ricordo di quel giorno, di quella pace tanto attesa e desiderata, di chi quella guerra la combatté con coraggio e di chi cadde vittima di essa.
Onde aiutare la popolazione nell’elaborazione del lutto, si ritenne utile non portare più in processione, la terza domenica di settembre, la Madonna Addolorata, vestita di nero e piangente, avrebbe dato un’immagine di ulteriore tristezza …, quindi venne così commissionata la statua dell’Immacolata Concezione ad uno dei più grandi maestri cartapestai leccesi, Salvatore Sacquegna, che creò una delle più belle opere presenti nelle Chiese di Chiaromonte.
Essa raffigura
 Maria nella più assoluta purezza verginale, sorretta da angeli svolazzanti, in difesa del mondo, mentre con il piede sinistro calpesta il male rappresentato dal serpente, e con il destro la falce di luna. Le circonda il capo una corona di dodici stelle, così come descritto nell’Apocalisse di San Giovanni (Ap 12,1). 
Fu così che dal 1920, grazie all’Arciprete don Raffaele Pozzi e a Giuseppe Vozzi, storico procuratore della festa nonchè finanziatore della statua, Chiaromonte ebbe ufficialmente la sua Madonna della Pace

Processione in Piazza. Anni 50

La venerazione appartiene alla Parrocchia di San Giovanni Battista, e viene venerata solennemente ogni anno la terza domenica di settembre.
Da allora, a Chiaromonte come in altri paesi, sovente la statua viene portata in processione dalle donne, abitudine, divenuta poi tradizione, iniziata nei periodi in cui gli uomini erano in guerra.
La Piazza addobbata a festa.
Foto E. C. Banfield©

Tempo fa, oltre a percorrere le vie del paese, prima di ritornare in chiesa, partiva una fiaccolata con a capo la statua che sostava sul al posto simbolo del “miracolo”.
Il paese veniva illuminato a festa grazie ai soldi che inviavano gli emigrati dall’America, e dopo un concerto bandistico, partivano i “colpi scuri” che chiudevano la serata.
Fino agli anni 90 la statua veniva provvista di una larga cintura dove i fedeli potevano appendere soldi od oggetti di valore dati in pegno per una richiesta di grazia. Fu poi tolta poiché il suo peso provocava il logorio dell’opera d’arte.
Alla morte di Giuseppe Vozzi, il procuratore divenne Vincenzo Arbia, suo genero, che già dagli Stati Uniti organizzava la colletta per la buona riuscita della festa, e che, rientrato in paese, prese quell’incarico.
20 settembre 1987
Ad essa è collegata la storica Fiera del Catarozzolo, che si svolge ai piedi del paese il terzo sabato di settembre e che anni fa era una delle più grandi e accorsate della zona.
Il 28 agosto 2020, a cento anni dall’istituzione del culto della Madonna della pace, grazie ad un’iniziativa del parroco don Antonio Caputo, è avvenuta, per mano del Vescovo mons. Vincenzo Orofino, e alla presenza di centinaia di fedeli, l’incoronazione della venerata statua.
Con gli anni la giornata della Madonna della Pace ha subito anch’essa dei cambiamenti.
E’ rimasta intatta solo la processione. La serata musicale poche volte, da trent’anni ad oggi, ha avuto luogo.
Oggi non si sente più la necessità di pregare perché il proprio figlio o marito torni dalla guerra, o per chiedere la grazia di ricevere un pezzo di pane per sfamare i propri figli. Ma un dovere bisogna farlo, ed è quello di pregare affinché la pace continui ad esserci nel mondo. Lo dobbiamo verso i nostri avi che patirono in quei tempi di miseria e di fame, e che alla Madonna si affidarono, ma, soprattutto lo dobbiamo verso tutti quelli che morirono per difendere la nostra patria, e per assicurare ai propri figli o e ai propri nipoti un futuro migliore.

Gennaro Cuccarese davanti
la statua della Madonna
Ci tengo a precisare che questa storia era ormai perduta.
Un grande devoto, e anch’egli procuratore della festa, Gennaro Cuccarese, meglio noto come màstë Iënnǽrë da Zòppë, raccontava questa storia a mio padre, Franco Amendolara.
E’ un’esclusiva che ho voluto condividere con tutti voi, affinché né questa, né altre storie vadano perdute, e che non si perda mai la memoria di ciò che è stato, perché ciò che siamo è solo grazie ad essa.

Ringrazio di cuore mio padre, Franco Amendolara (il collocatore) per avermi trasmesso questa meravigliosa storia, il maestro Giovanni Percoco per le informazioni storiche e Don Antonio Caputo per la sua collaborazione.


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L'incoronazione della Madonna - 28 agosto 2020


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Prima pubblicazione: 16 settembre 2011
Ultimo aggiornamento: 16 settembre 2020



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Alla fèrë du Càtaruòzzuwë


Fiera del Catarozzolo - 1954
Foto E.C. Banfield©


Alla fèrë du Càtaruòzzuwë
di Giovanni Monaco

Trascrizione e parafrasi
di G.D. Amendolara

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Storia inserita in archivio > Chiaromontesi raccontano



Së të affacciàvësë
addònnë u Munumèndë
a terza dumènëchë dë sëttèmbrë,
të vënìë u spìnnë dë scènnë da vàscë.
e dë të 'ntrùfuwǽ nda fèrë du Càtaruòzzuwë.
Gùnë ca væjë, n’atë ca vènë,
chi s'assèttë allu cìglijë du fuòssë,
chì cu gùmmuwë ‘mænë,
chi aspëttævë pècurë e cræpë
ca vëviènë alla fundǽnë,
chi sòttë i chiàndë allu frìšchë,
chi assëttǽtë ‘nànzë i gruttë
sòttë u tëmbònë dë Sànda Lucìë,
chi assëttætë alla barràcchë
dë zia Trësìnë a Mazzarònë,
a mëglièrë dë zë Giuànnë Gësëppònë,
ca vënnìë vìnë, gliùmmarièllë e spëzzatìnë,
chi ‘nànzë o barràcchë di pannacciǽrë
ca iènë da gruttë dë l'acquë
fìnë alla crùcë dë Sàn Pascælë,
e tantë sbattiènë e grëdavënë:
«Qui non si vende e ne si svende,
qui si regala tutto».
E murrë dë gèndë ca së spëngiènë
pë rëcòglijë mëccatùrë ca iëttàvënë pë l'àrijë.
Ma pòvërë crëstiǽnë,
s'aviènë a sfërtùnë di s'accattæǽ
cauzùnë, giacchèttë, cupèrtë,
lënzùwë, cauzèttë
chë appènë i lavàvënë
ònnë zì putiènë chiù mèttë.
S'accurtàvënë da sùlë,
o cangiàvënë chëlòrë.
Të putièsë fëdǽ sùlë du camijë
dë zë Giuànnë du scièsciùwë,
cu purtǽvë Vëcënzìnë Piattèllë,
nu brævë crëstiænë,
e quìllë dë Pëppìnë Sciampiònë
cu purtævë Pascǽlë,
e tuttë u rièstë t'avièsë stæ attièndë
ca të vënniènë pùrë
pruvuìzzë dë càucë pë borotàlchë.
Vënniènë scàrpë dë secònda mænë
purë cu nùmmërë sparëgliætë,
ma a chiù zìnnë t'avìa ì bònë.
Chi nànzë a cappèllë dë Sàn Pascælë,
chi allu pòndë du Zëccawuìë,
chi sòttë a crùcë, chì sòttë i cièuzë
e fìnë ndu mërcætë
c'èrënë pècurë puòrcë e cræpë,
c'èrënë frùšcùwë a tuttë ì bànnë.
E vëdièsë pë ‘ndèrrë
gùmmuwë, lancèllë, iàscarèllë,
còfënë, cufanìcchijë, spòrtë,
panærë e cuscënèllë,
e ghièrë pùrë a fèrë di ‘màstærë.
Stënniènë da na gulìvë a n’atë, sòpë u fuòssë,
‘màstë, stracquèwë, pëttèrë,
grëgliùzzë, capìstrë,
fàucë, cannièllë e vantǽrë,
e fërriàvënë e carusàvënë ciùccë.
C'erënë mùlë chi campanièllë,
iumèndë, burrìchë.
M’arrëcòrdë na vòtë
ca stavënë pruvànnë u ‘màstë a nu ciùccë,
chë appènë n’hannë mìsë, së n’è fëijùtë,
së vèdë ca ònnè u vulìë pagǽ.
Oh ch’ènnë fàttë pu ‘ngappǽ.
Së vèdë ca në ìë strìttë, e në facìë mælë,
e s’è misë a zumbǽ, povëru ciùccë.
E n’ennë pruvǽtë n’àtë ancòrë,
fa chë avièna ì subbëtë fòrë.
Së gëràvësë tuttë a fèrë,
sëntièsë crëstiænë ca parlàvënë dë n’ata manèrë.
C'erënë Francavëllìsë, Sënësǽrë,
Tëganìsë, Fàrdëllìsë,
Càstrënuvìsë, gèndë ca parlàvënë ghièrghijë,
fèmmënë cu camëcèttë rëcamætë e vèstë luònghë.
Ma a Madònnë passǽvë pùrë pë lòrë.
Ed arrëvævë cìtta cìttë
miènzë a gèndë e frùšcùwë,
ca së fërmàvënë pa salutǽ.
Avìë nu vëstìtë azzùrrë còmë u mærë
e tre guàgliùnë appëzzëcætë
ca së ‘mpauràvënë dë quìllu vàrmë nìghurë
ca ièllë sòttë nu pèdë avìë zëccǽtë.
E quànnë passævë,
fa chë u Spìrëtë Sàndë në dëcìë:
«Vulìtëvë bènë gùnë cu l’atë,
quèssë iè a Madònnë da Pæcë».
E së në ìë pë tuttë a fèrë.
M'arrëcòrdë ca pùrë attànëmë
s'avìë accattǽtë u ciùccë
da nu crëstiænë dë Fardèllë,
nu bèllë ciucciarièllë,
sèmbë tëràndë tëràndë,
ònnë së stancǽvë mæië,
t'avièsa stǽ attièndë sùlë
së c'erë ancuna burrìchë.
Crëstiænë e frùšcuwë
non së putiènë cundǽ,
ièrënë còmë i furmìcuwë,
assǽië assǽijë.
Oh che fèrë quèlla fèrë.
L'unèchë cùndë brùttë pë nuijë guagliùnë
ca n'arruinàvënë u càmbë
addò ièmmë a ghiùcǽ
e che mancævë pìcchë pë ghì alla scòlë.
Truvàvësë tuttë i cùndë.
Ièrë a fèra chiù grànnë du paìsë nuòstë,
e pùrë d'ancùnu paìsë vëcìnë.
Ièrë a fèrë di frušcuwë.
E chiænë chiænë,
i crëstiænë së në iènë alla cæsë,
chi cundèndë e chi no.
Chi sùlë cu panǽrë,
pëcchè avìë vënnùtë u puòrchë,
e chi cu ciùccë o cræpë o gàinë appènë accattǽtë,
chi cu gùmmuwë, chi cu lancèllë,
chi cu na spurtèllë
e chi cu mànghë na lìrë nda sacchèttë.
O nuòstë ièrënë përtusǽtë.
Së në cadiènë i sòldë.
Quìssë iè u rëcòrdë ca tènghë
da fèrë du Cataruòzzuwë.

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Alla fiera del Catarozzolo


Se ti affacciavi
al Monumento
la terza domenica di settembre
ti veniva la voglia di scendere
e di infilarti nella fiera del Catarozzolo.
Uno che va, un altro che viene,
chi si siede sul ciglio del fosso,
chi con recipiente in mano,
chi attendeva pecore e capre
che bevevano alla fontana,
chi al fresco sotto le piante,
chi seduto davanti alle grotte
sotto il timpone di Santa Lucia,
chi seduto alla barracca
di zia Teresa a Mazzarònë,
la moglie di zio Giovanni Gësëppònë,
che vendeva vino, gliùmmarièllë e spezzatino,
chi davanti alle barracche dei tessuti
che andavano alla grotta dell’acqua
fino alla croce di San Pasquale,
e tanti sbattevano e urlavano:
«Qui non si vende e ne si svende,
qui si regala tutto».
E grupi di persone che si spingevano
Per raccogliere fazzoletti che gettavano in aria.
Ma povera gente,
se avevano la sfortuna di comprare
pantaloni, giacche, coperte,
lenzuoli, calzette
che appena li lavavano
non potevano più metterli.
Si accorciavano da soli
O cambiavano colore.
Potevi fidarti solo del camion
di zio Giovanni du scièsciùwë,
che lo guidava Vincenzino Piattèllë,
una brava persona,
e quello di Peppino Sciampiònë
che lo guidava Pasquale,
e da tutto il resto dovevi stare attento
che ti vendevano anche
polvere di calce per borotalco.
Vendevano scarpe di seconda mano
anche di numero diverso,
ma la più piccola ti doveva andare bene.
Chi davanti la cappella di San Pasquale,
chi al Ponte du Zëccawuìë,
chi sotto la croce, chi sotto i gelsi
e fino al Mercato
c’erano pecore, maiali e capre,
c’erano animali dappertutto.
E vedevi per terra
ogni tipo di recipiente in terracotta,
cofani, cofanetti, ceste,
panari e cuscinelle,
ed era anche la fiera dei bastai.
Stendevano da un ulivo ad un altro, sul fosso,
masti, sottocoda, sottopancia,
grigliette, cavezze,
falci, ditali di canna, grembiule di cuoio,
e ferravano e tosavano l’asino.
C’erano muli con i campanelli,
giumente, asine.
Ricordo una volta
che stavano provando il basto ad un asino,
che appena lo hanno messo, se né scappato.
Si vede che non voleva prenderlo.
Oh cos’hanno fatto per acchiapparlo.
Se vede che gli andava stretto, o gli faceva male,
e si è messo a saltare, povero asino.
E ne hanno provato un altro ancora,
fa che dovevano andare di fretta in campagna.
Se giravi tutta la fiera,
sentivi gente che parlava in altri modi.
C’erano Frncavillesi, Senisesi,
Teanesi, Fardellesi,
Castronuovesi, gende che parlava Arbereshe,
donne con camicette ricamate e lunghe vesti.
Ma la Madonna passava anche per loro.
Ed arrivava silenziosa
In mezzo a persone e animali,
che si fermavano per salutarla.
Aveva un vestito azzurro come il mare
e tre bambini appiccicati
che avevano paura di quel serpente nero
che lei sotto un piede aveva schiacciato.
E quando passava,
fa che lo Spirito Santo ci diceva:
«voletevi bene uno con l’altro,
questa è la Madonna della Pace».
E se ne andava per tutta la fiera.
Ricordo che anche mio padre
aveva comprato un asino
da un uomo di Fardella,
un bell’asinello,
non si stancava mai,
sempre tirante tirante,
dovevi stare attento solo
se c’era qualche asina.
Persone e animali
Non si potevano contare,
erano come le formiche,
assai assai.
Oh che fiera quella fiera.
L’unica cosa brutta per noi ragazzi
Che ci rovinava il campo
Dove andavamo a giocare
E che mancava poco per tornare a scuola.
Trovavi tutte le cose.
Era la grande fiera del nostro paese,
e anche di qualche paese vicino.
Era la fiera degli animali.
E piano piano,
le persone se ne tornavano a casa,
chi felice e chi no.
Chi solo con un panaro,
perché aveva venduto il maiale,
e chi con l’asino o capre o agnelli appena comprati,
chi con recipienti per l’acqua,
chi con una sportelle
e chi con manco una lira in tasca.
Le nostre erano bucate.
Se ne cadevano i soldi.
Questo è il ricordo che ho
della fiera del Catarozzolo.



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A pùpë dë Paschë


Arriva Pasqua.
Un tempo non era per niente come oggi, né per grandi e ne per piccini.
Tradizione, devozione e desiderio, tre cose fondamentali portavano questa festa ad essere quasi o alla pari del Natale.
Si cominciava ancor prima delle Palme, con la creazione dei lavurièllë Pasquali da portare in Chiesa per il Sepolcro.

Donna ca puzèië
Foto dal web

Arrivava la settimana Santa.
Si preparava u cruscèndë (anche una settimana prima), il lievito madre, e il mercoledì si impastava lasciando riposare il tutto fino al mattino seguente, quando sarebbero stati preparati i Pëccëllætë, i Pùpë e i Trastanièllë.
Vi era però una scaletta importante da seguire per la devozione quando si sfornava, ed era questa:
Il primo pëccëllætë era per Gesù Cristo;
Il secondo per il Capofamiglia;
Il terzo per la Madre;
I quarti, pùpë e trastanièllë, per i figli;
gli altri che rimanevano si spendevano "pë l'àrië da Mëserëcòrdië".
Questa era la realizzazione del tipico pane Pasquale di Chiaromonte e non solo, con anche le varianti dolci.
Prima di lasciarvi alla lettura di questa nuova storia raccontataci da Giovanni Monaco, per chi non lo sapesse:
u Pëccëllætë è il classico pane Pasquale a forma di ciambella che contiene almeno tre uova;
a pùpë è una treccia che rappresenta un fagotto che protegge un neonato, e l'uovo, uno solo, rappresenta il viso o la bocca, ed è destinato alle femminucce.
u trastanièllë ë un pëccëllætë piccolo quasi ovale e con un uovo solo, destinato ai maschietti;
u tòrtënë o turtanièllë è sempre u pëccëllætë, ma spesso identifica quello senza uova.

Vi lascio alla lettura...

G.D. Amendolara