Ottobre 2024 mese dedicato a Zë Giuànnë “u ‘Mbrònë” Cuccarese

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Nu prëssëpië da vattë o mænë

nota: in questa storia non ho apportato alcuna correzione nelle parole in dialetto.
Pinuccio manca dal paese da sessant'anni, e desidero che tutti voi siate testimoni del suo amore immutato verso il nostro paese, il più bello del mondo.


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di Pinuccio Armenti




Don Franco Ferrara, sulla sinistra.
Immagini RAI ©
Cari Amici e Compaesani.
Ieri volevo camminare un pò per allenare il mio ginocchio operato, che va molto bene.
Cammino e passo davanti ad una chiesa.
Dentro di me sento il bisogno di entrare. Ogni tanto sento voglia di pregare, non per me, ma per i miei cari, famiglia, amici, per la pace nel mondo.
Mi siedo in un banco.
Poco lontano in un altro banco due vecchiette con le mani congiunte pregano pure loro.
Mentre prego il mio sguardo cade su un presepio al lato dell’Altare.
Finito con le preghiere, mi alzo e mi avvicino al presepio. Cosa vedo? Una grotta grandissima, Maria, Giuseppe, Bambinello, bue, asino, mangiatoia, fuori tre pastori e tre pecorelle, e sul tetto della capanna un angelo con una stella in mano.
Guardando mi dico: Perfetto non manca niente.
Poi lo riguardo e penso: Troppo semplice, senza fantasia.
Sorrido e nella mia mente il pensiero vola a Chiaromonte.
Io sono cresciuto nella chiesa di San Tommaso, chierichetto prima, sacrestano dopo.
Non ricordo quanti presepi abbiamo fatto con Don Franco, ma sono tanti.
Di Don Franco si possono dire tante cose. Non era amato da tutti, però per la parrocchia spendeva tante energie.
Per esempio: il presepio.
Lui si che aveva fantasia. Jere ngignus, come si dice da noi.
San Tommaso
Ogni anno inventava qualcosa di nuovo. Case nuove, laghetti, fontanelle ma l’acqua era vera, scorreva, non era finta.
Un anno ci radunò, noi chierichetti, e ci disse che voleva fare un presepe che i pastori si muovessero.
Noi ci siamo guardarti e abbiamo pensato: forse il diabete è basso e fantastica. Invece ci spiegò quello che aveva in mente. Noi ancora eravamo increduli.
Per primo cercò un falegname. Non ricordo se fu Luigi Mustazz o Giuann Dottore.
Fece fere 2 ruote rotonde una cinquantina di cm di diametro. Noi aiutanti avevamo allestito piano piano già lo scheletro.
Nella Chiesa sulla destra c’era, o meglio ci sarà ancora, un altare più piccolo, sarà sette, otto metri di larghezza e cinque, sei metri di lunghezza. Li ci si faceva anche il Sepolcro a Pasqua.
Naturalmente senza Don Franco non si faceva niente.
Quanti rimproveri ci siamo presi quando qualcosa non andava come voleva lui.
Lui aveva già tutto memorizzato nel suo cervello. A sinistra in fondo su una collinetta fatta con carta pesta c’era il paesino, a volte sembrava vedere Chiaromonte. Poi si scendeva a valle percorrendo delle viicelle fatte con tanta pazienza. Il falegname nel frattempo aveva fatto queste ruote di compensato, molto leggere, sotto don Franco mette due cuscinetti girevoli che poi attaccati alla corrente facevano girare le due ruote.
C’è voluto un pò di tempo prima che questo meccanismo funzionasse alla perfezione.
Mentre lui faceva tutto questo, aiutato anche da Biasino Saponara e Ndreia da Colla, papà di Giovanni Monaco, noi chierichetti andavamo a fare u piz (il muschio) per ricoprire il tutto.
Ricordo che andavamo cu paner e sporte nda Vallina, ndu Scurciatur, a tutt o bann dove c’erano cerse o altri alberi. Facevamo a gara a chi ancappeve a tappa chiu granna.
Giuann Pozzovivo, Attilio Murro, Minccuccio Infantino, Ndonio u Fiut, Giuannuzz Pesce, fratem, io e Giuannuzz Monaco ca jere u chiu zinn di tutti quanti. Sicuramente c’era anche qualche altro che ora mi sfugge.
A volte capitava che c’era già la neve, ma a noi non importava niente. A nui ni sirvie u piiz pe fe u prisepie.
Quando turnamm tutti, nfriddulit e chine di zang purtamm u piiz nda chiesa e ni jemm a scaffè allu fuoco nda chesa.
Ormai si era fatto tardi e cosi andammo a letto.
Il giorno dopo al mattino si andava a scuola, però subito dopo pranzo si correva in chiesa.
Era quasi tutto pronto.
Sul palco, alto un metro, c’erano già le tavole. In fondo a sinistra sulle montagne fatte di carta pesta colorata le casette del paesino erano già messe al posto giusto.
Dalle viuzze contorte si scendeva a valle, passavano vicino ad un laghetto, ancora senz’acqua, un pò più distante una fontanella anche essa ancora asciutta.
Si saliva su un bel ponte e piano piano si arrivava alla capanna già pronta ma senza statuine.
Sulla destra, non molto lontano dalla capanna, un recinto (nu jazz) con delle pecorelle e un cane da guardia. Vicino la capanna a sinistra e a destra c’erano le ruote di compensato però ancora ferme.
La nostra curiosità' era di vederle muoversi.
Sempre con l'aiuto degli uomini dell’azione cattolica si incominciava a mettere u piiz.
A noi adesso non rimaneva che guardare, era lavoro per grandi.
Però nessuno di noi andò a casa. Era molto interessate.
Ora era tutto coperto di muschio anche le ruote di compensato, però non si muoveva niente. Nel laghetto ora c’era l’acqua, e anche dalla fontanella scorreva acqua.
Nelle casette brillavano le luci, e anche la stella sulla capanna si era accesa.
Ora c’erano pastori, pastorelle,bambini, bue, asinello Maria, Giuseppe, il Bambinello nella culla.
Era tutto pronto.
Solo i pastori che erano sulle ruote di compensato non si muovevano.
Don Franco era impaziente e un pò nervoso. Non funzionava come aveva progettato.
Allora mandò uno degli uomini sotto il palco per vedere se la corrente funzionasse. Era tutto a posto. Allora Don Franco causalmente prese un paio di pastori e li mise in un altro posto.
Tutto d’un tratto una ruota incominciò a girare. Allora capimmo che le statuine erano pesanti. Li alleggerirono e ora funzionava a meraviglia.
Noi ragazzi non riuscivamo a togliere lo sguardo da questa meraviglia.
Il volto di Don Franco si illuminò di un sorriso mai visto.
Noi non potemmo trattenere un applauso di gioia.
Avvolto nei miei ricordi non mi accorgo che una mano batte sulla mia spalla .
Sento una voce. E' il parroco della parrocchia che io conosco molto bene, perchè lui celebra la messa per noi Italiani qui ad Ingolstadt, dove io e il mio Gruppo cantiamo.
Mi chiede in italiano se mi piace il presepio. Io gli rispondo: Molto bello, però dentro di me penso: Mo, non bello come quello del mio paese.


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O scaudatièllë


O scaudatièllë
Storia e ricetta


Di G.D. Amendolara
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Tipico della tradizione natalizia Chiaromontese, o scaudatièllë hanno origini antichissime.
Appartengono ad un antica tradizione del popolo greco che, come ben sappiamo, influenzò la storia del nostro territorio, ma che l’uso di questa tradizione sia riconducibile a quell’epoca non vi è certezza.
Un ipotesi plausibile invece è legata all’arrivo nel nostro paese di numerose famiglie di origine campana, soprattutto cilentane, terra dove la tradizione degli scaudatièllë è proprio riconducibile all’arrivo dei coloni greci.
Definiti “dolce dei poveri” per i pochi ingredienti che lo compongono, si presentano sotto forma di un fiocco che, seguendo sempre le sue antichissime origini, vuole rappresentare sia la lettera Alpha che la lettera Omega, la prima e l’ultima dell’alfabeto greco, legati alla tradizione del solstizio d’inverno, importante per quei popoli, che coincide con ciò che divenne il Natale, data tradizionale per i Cilentani che ne hanno fatto un prodotto tipico, mentre per Chiaromonte è l'otto di dicembre, giorno dell’Immacolata e anche du spërtusa vuttë.
La ricetta qui riportata è quella tradizionale, antica, ma in molti per renderli più gustosi aggiungono all’impasto le patate e anche un uovo e, oltre i classici zucchero e cannella, vengono decorati anche con zuccherini colorati.
Fatto sta che ricetta antica o con le patate, con o senza zuccherini, o scaudatièllë contro il tempo hanno mostrato la loro forza e, puntuali, l’otto dicembre son presenti sulle tavole dei Chiaromontesi, proprio come tradizione vuole.



RICETTA
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Nota: la ricetta che qui trovate è la versione tradizionale, quella antica Chiaromontese

Ingredienti
Farina, Acqua, Sale, Olio di oliva,
Zucchero a velo, Cannella



Utensili

Pentola, cucchiaio di legno, Spianatoia, Padella


Procedimento
 
Iniziare dosando la stessa parte di acqua e farina (esempio: due tazze di farina, due tazze di acqua).
Portare a bollore l’acqua, aggiungendo un pizzico di sale.
Setacciare la farina e a bollore raggiunto aggiungere man mano e mescolare con un cucchiaio di legno senza mai fermarsi, evitando che si attacchi o si formino grumi.
Continuare a girare fino a che la pasta non rimane più attaccata alle pareti della pentola. Aggiungere altra acqua solo se l’impasto risulta troppo sodo.
Ungere u šcanatùrë con olio di oliva e lavorare l’impasto caldo sinché non si raffredda e risulta liscio e morbido, senza aggiungere nulla, lasciandolo riposare una decina di minuti coperto con un pazzo.
Stendere la pasta a filoncino e dividerla in lunghi cilindretti, annodandoli formando una L.
Friggere in olio di semi.
Nel frattempo mescolare zucchero a velo e cannella.
Lasciar scolare l’olio e tuffare ancora nel miscuglio di zucchero e cannella.

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Cu pìcchë, e në prëiàmmë

Di Pinuccio Armenti

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Cari compaesani e amici.
Ho letto con molto interesse la storia della discoteca negli anni70 a Chiaromonte che poi ,ahimè, non finì tanto bene.
Ho letto anche il racconto di Peppe Crescente, con il ballo in casa tra amici che poi finì con insulti e parolacce e che anche il prete ci mise la sua benedizione sgridando tutti.
Vi sembrerà banale ma, vent’anni prima era tutta un altra musica, nel vero senso della parola.
Adesso vi racconto io la mia storia, scusatemi, la nostra storia.
Siamo nella metà degli anni50.
Ciccillo u portalettere
con la moglie Rosetta
Io avevo 14 o 15 anni. Il nostro paesello era sempre sul cucuzzolo della collina e incominciava a svegliarsi.
Era arrivata da poco la televisione, ma non tutti potevano permettersi questo lusso e non si poteva sempre andare a rompere le scatole la sera a quei pochi che l'avevano.
Dovevamo cercare il modo di passare le lunghe serate invernali senza perderci nell'ozio.
Non ricordo di chi fu l'idea.
In quel periodo Ciccillo Ricciardi detto "quattbott " fratello di Giovanni u portalettere aveva comprato un giradischi moderno. Non bisognava più girare la manovella, ma andava con la corrente. Ciccillo allora faceva l'imbianchino, poi prese il posto del fratello portalettere.
Quei pochi soldi che guadagnava li investiva a comprare dischi . Ballabili e anche molte canzoni nuove di quell'epoca.
Io già andavo allu mastro da Umberto Landi. Proprio li girava una voce, sotto sotto, che si stava organizzando una serata di ballo tra amici alla ches di zia Maria a Carvuner moglie di Giuann u portalettere.
Umberto Landi nella sua
prima botteghina

A qui tempi a Chiaromonte si respirava un aria pacifica. Forse perchè eravamo più poveri. Non c'era tanta invidia e tanta cattiveria come oggi.
Le famiglie che stavano meglio, e ce n’erano parecchie, erano molto buone e caritatevoli. Non voglio fare nomi ,ma per le famiglie povere, avevano sempre qualcosa da dare.
Forse sono uscito un pò fuori tema, ma questa cosa la dovevo scrivere, per far capire che allora eravamo più uniti e ci si voleva più bene.
Tornando alla serata di ballo, non ricordo che mese era, pero' ricordo che faceva molto freddo.
Giuann u portalettere
e sua moglie Maria
a carvunar
Verso le 19.30 bussai alla porta e mi apri Mincuccio il figlio di Zia Maria. Io continuo a dire zia Maria, anche perchè per un periodo era veramente zia ed io il miglior nipote. Ma questa e' un altra storia.
Eravamo una quindicina di persone. Non solo giovani, anche i genitori delle ragazze erano presenti. Ndu fuculer c'era nu bell cippon che ogni tanto scoppiettava. Paria ca pur ill si priev di vedè tanta gente bell'allegra. Na sciangarell di viscuott di Latronico, nu bicchirucc di vino di Ciccillo u parente, nu pere di marzucchell, valzer e va ca viene, si fece mezzanotte passet.
Papà mio non disse niente perché io ero cu mastro mio.
Fu l'inizio di una lunga serie.
Piano piano si sparse la voce e si ballava adesso in diverse case. Nda Caserma vecchia, alla Temba, allu Timbone, alla Cruce e ndu Purtiell.
U prevte jer cuiet e non dicie niente, anche perchè io ero il suo Sacrestano.
Passammo tutto l'inverno e Carvuner sempre ballando.
Io avevo imparato bene a ballare. Il mio ballo preferito era la Mazurka.
Ogni tanto la corrente di Latronico ci faceva qualche brutto scherzo. Un colpo di vento o un pò di neve sui fili se ne andava e ci lasciava al buio.
Le mamme delle ragazze gridavano : ue guagliù tinit o men allu posto loro. Ma noi allora non eravamo ancora cosi vizius.
Luigi u parent

E poi c'era a vamb du cippon. Dopo 5 minuti la stanza era piena di cirogini. A volte la corrente tornava subito, a volte mancava per qualche ora.
Nessuno si perdeva d'animo. U parent pigliava l'organetto, oppure Ndonio Miraglia detto "sturlin " con la fisarmonica o Vicinzino Mele detto "CARDRLLO". Si rimediava sempre.
A volte si ballava con musica live.
A Chiaromonte c'erano un sacco di suonatori. Battista Misciarul era il piu' bravo, beh lui suonava a musica, però era un pò difficile averlo per queste serate . Lui era più per Sposalizi.
Però a volte ci accontentava.
Mincuccio u Parente, Luigi u Parente e gli altri due nominati prima. Anche io avevo incominciato a suonare la chitarra ma ero ancora alle prime armi. Mi piaceva più ballare. Anche perché incominciavano a nascere i primi amori.
Amore, che parola grande.
Allora ci bastava un bel sorriso e già eravamo al settimo cielo.
Queste serate durarono parecchi anni. Si partiva dalla fine Novembre fino a dopo Carnevale.
Cari Chiaromontesi, vi posso assicurare che chi ha vissuto questi anni nel nostro paesino non li avrà dimenticati. Io posso dirvi che sono stati gli anni più belli fino ai diciotto anni della mia vita. Poi il destino ha voluto che andassi via dal mio amato paesino sul cucuzzolo della collina.
Eravamo poveri ma felici.

Alla prossima
 

Pinuccio Armenti

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Addò së tròvë à ‘Mèrëchë?


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di: 
Giovanni D. Amendolara, 
Giovanni Monaco (Verona), 
Franco Amendolara (collocatore)

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  Com'erano brutti i tempi di una volta.
Lo erano talmente tanto che il termine “non avevano nemmeno gli occhi per piangere” pare essere il più adatto.
Si soffriva, tanto che la mortalità infantile era altissima, causata soprattutto dal mal nutrimento.
I periodi grigi, però, fortunatamente accendono nelle persone delle scintille di speranza e, in quegli anni, e parliamo fino agli anni 60 del secolo scorso, queste portavano un solo nome: America.


Un emigrato a New York.
Archivio Famiglia Amendolara

Ci si armava di coraggio, si preparava la propria valigia di cartone e si partiva, con la nostalgia che cresceva man mano che la nave si allontanava dal porto, cosi come la paura per non sapere cosa realmente li attendesse, e la speranza di avere una vita migliore.
In molti riuscirono a rimanere, sia negli Stati Uniti che in America Latina, ma altrettanti tornarono indietro, perché la vita laggiù non era facile come gli fecero credere quegli uomini che, nelle piazze dei paesi, tanto pubblicizzavano l’emigrazione.
Poi c’era chi al paese rimaneva, sia perché l’America non se la poteva permettere, e sia perché non lo voleva lasciare.
Pensate che in molti non sapevano nemmeno com'era fatta Fardella, o Francavilla, o anche le stesse frazioni del paese, e il bagno nel Sinni non l’avevano mai fatto.
Erano persone (e anche bambini) dedite al lavoro.
Molti di loro si svegliavano prima del canto del gallo.
Si spaccavano la schiena per poche lire, e rientravano a casa al calar del sole. Mangiavano un pasto caldo e, stanchi morti, si buttavano sul letto(se lo avevano), spesso con ancora addosso i panni da lavoro, per poter recuperare le forze cosi da poter affrontare un'altra dura giornata.
In cuor loro, pur restando al paese, avevano desiderio di cambiare la loro vita, fatta di stenti e sacrifici che a poco servivano.

il massiccio del Pollino

Chissà com'era l'America!
A chiederselo erano soprattutto i bambini, carichi della loro curiosità e del loro fantasticare.
Chissà come la immaginavano e cosa frullava nelle loro menti, spinte a viaggiare lontano da quella povertà e da quella fame che tanto li affliggeva.
Il bello delle domande dei bambini è che spesso aiutano anche i grandi a viaggiare, e molte volte a dire cose che nemmeno conoscono, pur di vederli felici.

Durante quei periodi che vi stiamo raccontando, in quei pochi momenti in cui un adulto riusciva a passare del tempo con un bambino, accadeva anche questo:

In dialetto:

N’attænë e u fìgljë, còmë pìcchë vòtë succëdìë, s’aviènë mìsë a guardà cittë cittë u panuràmë.
U Guàgnëgnièllë, 'nchëriusùtë, në àddummànnë:
“Uè Tætë, ma addò së tròvë à ‘Mèrëchë?”
Pëgliàtë alla šchërdùgnë, a’ttænë, còmë së u sapìë àll’avèramèndë, në rëspònnë:
“Iè assàjë allùndænë figlië mìë. Të n'eia ì pë chìllë vìë, èia passà Fardèllë e vaië ancòrë pë chìllë strædë affìnë a ‘nghianà addònnë ò mundàgnë. A vìdësë chèllë?” dëcìë 'ndramèndë ca cù ìdëtë facië sègnë vèrsë ì mundàgnë dë fròndë.
“ma quælë? Quèlla grànnë?” chiëdìë u criatùrë,'ndëcànnë a Caràmulë.
“Mènnònë! Mìchë chèllë” fæcë attǽnë.
“À vìdësë quèllë? Chèll’àddërètë, a chiù allùntænë?”, facènnë sègnë allu Pullìnë.
“Mò! À’Mèrëchë iè là addërètë”

Sapènnë ch’avijë dìttë na fëssarìë, o 'mbærëchë ca crëdìë ca ièrë veràmèndë accussì, lassǽvë ù guàgnëgnièllë allë pënsièrë sòië, pë fa chë alëmmìnë pë nu mumèndë s'avèrë scurdætë quìllë ca nòn u facìë stà buònë.


Traduzione:

Un padre e il proprio figlio, come poche volte accadeva, si fermarono ad osservare in silenzio il panorama.
Il piccolo, preso dalla curiosità, saltò su chiedendo:
"papà, ma dove si trova l'America?"
Preso alla sprovvista dalla domanda, il padre, come se ne fosse veramente a conoscenza, rispondeva:
"è assai lontana figlio mio. Te ne devi andare per quelle vie, devi passare Fardella e vai ancora per quelle strade finché non sali verso le montagne. La vedi quella?" diceva mentre indicava le montagne di fronte.
“Ma quale? Quella grande?” chiedeva il piccolo, indicando Caramola.
“No! Mica quella” rispondeva il padre.
“Vedi quella? Quella dietro, la più lontana”, indicando il Pollino.
“Ecco! L’America sta la dietro”.

Consapevole di aver detto una bugia, o forse credendo che fosse veramente cosi, lasciava il bimbo alla sua immaginazione, facendo si che per un momento solo potesse dimenticare ciò che tanto lo faceva soffrire.


Mio padre, parlando di questa storia, aggiunge:
Quando eravamo piccoli, tra gli anni 50 e 60, il nostro sogno era la California. 
Non sapendo dove fosse, chiedevamo ai più grandi che, puntualmente, ci rispondevano che si trovava dietro al Pollino, proprio come l’America.
E quando volevamo sapere dov'era Roma, ci rispondevano che si trovava dietro il Monte Alpi.

Agglutination Metal Festival

Il pubblico all'apertura della III^ edizione dell'Agglutination.
Foto Angela Finizio (web)



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Di G.D. Amendolara
con la collaborazione di Gerardo Cafaro

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"Ditemi quello che volete, ma ogni volta che mi sono espresso sull’Agglutination 
non sono mai riuscito a scindere l’edizione “del momento” dalla storia del festival in sé,
una kermesse talmente solida da aver stracciato tutti i record di longevità in ambito metal in Italia. 
Il tempo ha dunque dato ragione a Gerardo Cafaro e alla sua missione 
di esportare il concetto di open air metallico in Basilicata, 
una delle terre d’Italia che soffrono maggiormente la distanza dai centri nevralgici
e dagli snodi internazionali di questo genere,
sia a livello chilometrico che (soprattutto) logistico".

Francesco Faniello - Metal Hammer


"Abbarbicata su di un colle in piena Basilicata, 
da quasi dieci anni Chiaromonte vede materializzarsi entro i suoi confini 
il sogno di un ragazzo che ha fatto del metallo pesante la sua ragion d’essere 
e che risponde al nome di Gerardo Cafaro. 
Gerardo ha portato al suo paese d’origine nomi di tutto rispetto 
come Overkill, Destruction e molti altri altri, 
tutto per quei ragazzi che non hanno la possibilità 
di raggiungere i grossi festival del Nord Italia"

Luca Bernasconi - metallus.it (2003)

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11 agosto 1997



A spezzare il silenzio prima del suono della sirena delle 08:00 ci pensarono i rombi delle prime moto radunatesi in piazza.
Di lì a poco ne sarebbero arrivate altre, decine di centauri che riempirono la piazza e parte del corso, per quello che sarebbe stato il MOTOM, il motoraduno organizzato da Agnesina Pozzi.
Tutti insieme sarebbero partiti in un tour nel cuore del parco nazionale del Pollino, per poi rientrare a Chiaromonte per essere partecipi all’evento che, inaspettatamente, sarebbe entrato nella storia del paese, e non solo.
Prima di continuare bisogna che faccia un piccolo passo indietro nel tempo.


Agosto 1995


Il calendario degli eventi del “E… state a Chiaromonte” era stato riempito.
Tra i tanti e anche soliti appuntamenti, al giorno 12 qualcosa di nuovo era stato organizzato.
Gerardo Cafaro, appassionato ed esperto dell' Heavy Metal, e del genere conduttore di programmi radiofonici nelle radio della zona, decise di fare il passo successivo, quello di far conoscere il metal oltre le mura di una radio, e fu così che nacque l'Agglutination Metal Festival.
Nella piazza di Chiaromonte gruppi emergenti avrebbero preceduto i veterani Marshall davanti ad un pubblico formato perlopiù da curiosi del paese e da pochi adepti.
Ciò non abbattè il morale di Gerardo che, anzi, ne fece motivo per continuare ed organizzare la seconda edizione, quella del 96, che vide presenti come headliner, in una piazza quasi colma di appassionati, gli storici White Skull, gruppo italiano conosciuto in tutto il mondo.
Archiviata anche la seconda edizione, si tirarono le somme, e i risultati furono più che positivi.
“Azzardare” sarebbe stata la parola chiave per il passo successivo.


AGGLUTINATION METAL FESTIVAL

3^ edizione
11 agosto 1997


Le moto avevano svuotato la piazza.
Presero il loro posto personaggi che non passarono inosservati.
Vestiti di nero, capelli lunghi, chi adornato da catene o pendagli con simboli esoterici, bracciali e collari borchiati e, i più estremi, con volto dipinto di bianco e nero che a qualcuno incusse timore.
Si apprestavano a far scorte negli alimentari per poi, tutti, porre la domanda: stiamo cercando il campo sportivo.
All’ora di pranzo l’area del campo era già invasa da auto e altri mezzi di trasporto.
Gli arrivati riempirono le gradinate mentre da molte auto, a volume a palla, ogni genere di metal creava atmosfera.
Per questa edizione la piazza non sarebbe bastata.
Dalle previsioni il pubblico sarebbe stato numeroso.
Gerardo lo aveva fatto, aveva azzardato, e per la terza edizione era riuscito ad invitare uno dei nomi più importanti dell’Heavy Metal, creatori del genere Thrash e che ad ogni loro evento attiravano migliaia di fans, un nome che da settimane era scritto sui manifesti che invadevano le mura dal paese sino a fuori regione: OVER KILL.

Il pubblico della terza edizione del festival

Alle 16.00 si aprì il cancello. Tutti liberi di entrare, senza nessun biglietto da pagare.
Rientrarono anche i centauri del MOTOM, e con loro arrivò un gruppo di bikers direttamente dal Piemonte, accorsi apposta per l’evento.
Ad aprire l’edizione furono i Funeral Fuck, gruppo formato da ragazzi del paese già facente parte dello staff.
I Lost Innocence all'Agglutination 1997.
Screenshot Youtube
A seguire altri nomi emergenti sino alle esibizioni dei più conosciuti Lost Innocence, White Skull e Megora.
Alla fine delle loro esibizioni il buio rese lunga l’attesa, spezzata da cori incitanti gli Over Kill che, sotto luci arancioni, cominciarono la loro performance.
Dopo ore sotto il sole e partecipe anche con gli altri gruppi, il pubblico parve aver acquisito una nuova carica, scatenandosi in un pogo generale che alzò un polverone che accompagnò l’intero spettacolo.
Vero: la piazza non sarebbe bastata per questa edizione, ma nessuno aveva previsto nulla del genere.
Si stimavano tra le 5.000 e le 7.000 presenze, anche se ad occhio parevano molte di più.
Quell’11 agosto del 1997 era ufficialmente decollata la bellissima storia dell’unico festival metal italiano ancora attivo: L’AGGLUTINATION METAL FESTIVAL

Poster IV edizione
Alimentari e bar quasi del tutto svuotati, le immagini di quella folta schiera di metallari scatenati ma educati e rispettosi, l’incredulità del paese intero per quello che era avvenuto la sera prima e dello stesso Gerardo per ciò che aveva creato.
Fu così che venne vissuto il giorno dopo e anche quelli a seguire.
Per quei tempi ove non vi erano concerti metal di rilievo al Sud, l'arrivo degli americani Overkill in Basilicata fu un evento storico dove nessuno volle mancare, avventurandosi a raggiungere Chiaromonte con ogni mezzo, persino coloro che con tre bus arrivarono da Policoro, e da questi vennero lasciati prima della fine del concerto per polemiche che a quei tempi colpivano il popolo metal, accusati di essere violenti e reietti della società, quando invece dimostrarono il contrario, tutti.
Gerardo in mezzo al pubblico
Quella terza edizione consacrò il festival tra i grandi del genere in Italia, un festival svolto in una piccola località di montagna che si affiancò a mostri sacri quali il Gods of Metal e il Monster of Rock che si svolgevano nel settentrione.
Gli Over Kill furono solo l’inizio di una lunga serie di grandi nomi presenti negli anni a seguire, tra i quali citiamo i Destruction (2002), i Gamma Ray (2007), i Therion (2016), i Dark Tranquillity (2008, 2012), i CannibalCorpse (2010) e molti altri ancora che ad oggi hanno reso il festival tra i più longevi d'Europa (secondo al Wacken Open Air nato nel 1990 e in un piccolo paese proprio come Chiaromonte), ma anche il solo ancora attivo dei grandi della nostra nazione, e per Chiaromonte questo è un orgoglio perché, nonostante negli anni le sedi dello svolgimento siano state anche Senise e Sant'Arcangelo, tra gli amanti del genere e non solo, se pronunci Chiaromonte ti diranno subito Agglutination, e viceversa.

Aggutination 2019

Per entrare nella storia basta un non nulla, ma ciò che Gerardo insieme alla sua ciurma mantiene vivo da quasi trent’anni è di misure mastodontiche, e riempire le righe del libro della nostra magnifica storia con quella dell'Agglutination più che un dovere è un piacere, enorme come il suo nome.


Agglutination su facebook qui


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Il nostro campo da calcio - parte terza

Prima di cominciare con il terzo racconto, voglio dirvi che ho dimenticato due nomi molto importanti che fecero parte della squadra da Grùttë dë l’acquë e che sono anche sulla fotografia.
Il primo veniva da Fardella e trovò l’amore a Chiaromonte. Sto parlando di Nanà che sposò Ninetta, la sorella di Franchino Ricciardi. Giocava da ala ed era molto veloce, tecnicamente molto bravo. Anche il maestro Paolo Dursi, figlio di Ciccillo il muratore. Un mediano fortissimo. Tecnica discreta, ma l'attaccante avversario nemmeno con un carro armato riusciva a passare. Un vero Mastino da guardia. Mi scuso con tutti voi, ma alla vecchiaia qualcosa ti sfugge sempre.




Di Pinuccio Armenti
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Carissimi compaesani,
per finire la trilogia della storia del Calcio Chiaromontese eccovi l’ultimo capitolo.
Eravamo arrivati alla fine degli anni 50.
Come già detto su per giù,më në væghë all’abbëchë, poteva essere anche l'inizio del 1960.
Il campo Sportivo era adesso allu Sërrònë dove si trova ancora oggi.
Questa volta fù il Comune a decidere.
Allora, per far lavorare un pò la gente, si facevano dei cantieri, cosi, senza bruciare più rëstùccë e grègnë, questo cantiere mise a posto il terreno rendendolo giocabile.
Certo, o pètrë c’erano sèmbë, non come adesso con l’erbetta.
Anche la squadra aveva cambiato parecchi giocatori.
Era la squadra dei fratelli Antonio, Minguccio e a volte Vittorio Picone. Peppino, Eugenio e a vote anche Santino Micele. Ciccillo ed io Pinuccio Armenti. Anche io facevo parte della squadra, all'inizio come riserva, ero ancora troppo giovane, ma poi negli anni successivi punto fermo.
Non ricordo se era il 61 o il 62.
Eugenio Micele stava facendo gli esami per diplomarsi da maestro, proprio nei mesi dove si giocava di più. Eugenio era ed è stato il centravanti più bravo che Chiaromonte abbia avuto. Segnava gol a grappoli.
Quella domenica veniva S. Severino a giocare. Falùzzë Amendolara, che era il capitano, mi venne vicino e mi disse: «Tu oggi fai il centroavanti».
Ed io: «Cosa?»
Io dovevo sostituire Eugenio? Non mi sembrava vero.
Ebbene, quel giorno segnai tre gol. Mio fratello e Giovanni Pozzovivo, che giocavano da ala, oggi si dice esterni, mi fecero dei traversoni che io ho dovuto mettere solo il piede e posare il pallone in rete.
Poi c’era Giovanni Pozzovivo e gli anziani Vittorio Grandinetti, Falùzzë Corradino, Falùzzë da Mulënærë, Vincenzino De Palma, poi venivano due da Francavilla, L' Amico e Brunetta, da Senise un Salvatore Marino.
Mi scuso se dimentico qualcuno.
Ora avevamo anche uno Sponsor, Il comm. Umberto Ferrara.
Aveva messo su una fabbrichetta di bibite: Gassose, Aranciate e Chinotto.
Regalò alla squadra magliette, pantaloncini e calzettoni. Anche problemi di pallone non ce n’erano più.
Magliette gialle con scritta sul petto “Preferite bibite Ferrara”, pantaloncini verdi.
Ora eravamo una squadra presentabile.
Naturalmente nella pausa e alla fine della partita si bevevano bibite Ferrara, per noi giocatori gratis.
Ora si giocava in e fuori casa, la gente veniva e si divertiva.
Vincevamo spesso e il tifo diventava sempre più acceso.
A Calvera andavamo spesso, anche perchè lì abitava Gaetano Mazzilli, nostro paesano, ed era sempre contento di vederci.
Mi ricordo una partita…
Nella squadra questa volta c’era anche Falùzzo Di Serio. Sferrò una puntata da 30 metri e finì all' incrocio dei pali. Un gol meraviglioso.
Noi tutti gridammo “gol, gol”. Lui ci guardò stupito e disse: «Vi e' piaciuto?»
In verità lui era senza occhiali e non aveva visto niente.
Davide Cicale era il nostro autista. Lui aveva un 1.100 nero bellissimo e ci stavamo tutti. Ognuno di noi pagava un paio di cento lire. Chi ne aveva di più ne metteva di più.
Una volta andammo a quel Paese (Colobraro), Davide non c’era e ci accompagnò Pasqualino Dursi (Sciambiònë) con il furgone di suo fratello Peppino. Quindi potete immaginare, senza sedili, seduti o sdraiati nel furgone.
A metà gara, dopo una decisione arbitraria, scoppiò una rissa che degenerò.
Noi pieni di paura scappammo verso il furgone che non trovammo, allora corremmo chillë costë a pënnìnë fino al bivio Cozzo di Tonno. Lì trovammo il furgone che ci aspettava.
Pasqualino ebbe paura dei Carabinieri. Meno male che ci eravamo spogliati nel furgone, cosi avevamo tutta la roba.
Potrei raccontarvi ancora tanti altri fattarielli, però forse poi diventerei noioso.
Voglio ricordare solo il caro Maestro Alfredo Tallarico, che tutte le domenica faceva l'arbitro. Poveretto quanti insulti e parolacce doveva sopportare.
L'ultima cosa che voglio scrivere è una cosa che mi è successa poco tempo fà e che mi ha fatto tanto piacere. Una signora o signorina che io non conosco, perché non la ricordo, naturalmente di Chiaromonte, su Facebook. mi scrisse che lei aveva una decina d’anni e si ricordava di me, perchè io allora ero un personaggio. Ridendo gli ho risposto di non esagerare.
Io ero solo un ragazzo a cui piaceva giocare a Pallone e niente di più.

Un abbraccio a tutti voi.

Il nostro campo da calcio - parte seconda

 

La squadra della quale Pinuccio racconta.
Foto di Giovanni Chiorazzi

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di Pinuccio Armenti



Cari compaesani,
verso la metà degli anni 50 ci fù una vera rivoluzione nel calcio Chiaramontese: un nuovo campo sportivo e tutta una nuova squadra. 
Dovete scusarmi se non mi ricordo la data esatta. Io non sono il maestro Percoco, lui aveva documenti, certificati che attestavano tutto con precisione. Il mio è solo un ricordo.
Il campo sportivo fu spostato alla Grùttë dë l'acquë. La proprietà del terreno non ricordo di chi era.
La procedura era la stessa.
A Giugno, dopo la mietitura, i soliti volontari si apprestavano a bruciare a rëstuccë e poi, con rampini, pale, ecc... si cercava di farlo diventare praticabile.
Un ricordo non tanto bello ve lo debbo raccontare.
Un anno, per la fretta e la voglia di giocare, mettemmo fuoco alla rëstuccë. Non ci accorgemmo che c'erano ancora i grègnë, e cosi bruciammo quasi tutto il raccolto.
Non vi dico quello che successe dopo.
Non abbiamo dovuto pagare niente anche perché i soldi chi li aveva. 
La squadra cambiò totalmente.Tutti o quasi giovani. 
Portieri in abbondanza. Prospero Donadio era di un eleganza straordinaria. Tenuta nera, ginocchiere, guanti e berretto come i portieri inglesi. Abbastanza bravo. 
Qualche partita la fece anche Antonio Crescente (Scëpparièllë) papà del nostro caro Peppino. Poi emigrò in Francia.
E naturalmente, allora giovanissimo, Falùzzë Corradino. Quello che restò più a lungo. Anche io giocai con lui.
Poi terzini Giannino Damiano, Antonio Picone, Ciccillo Caprarulo, che poi andò in Sud America.
Mediani Vincenzino De Palma, il migliore di tutti i tempi Falùzzë da Mulënærë, anche lui grandissimo, Vittorio Grandinetti.
L'attacco: Vitino Vitale (pìnghënièllë). 
Mi ricordo che una volta dimenticò i pantaloni corti e giocò in mutandina. Il guaio fu' che davanti aveva un apertura e correndo si aprì e uscì qualcosa che non doveva.
Gli spettatori tutti ad applaudire. 
Incominciò ad arrivare anche qualche forestiero, per esempio un certo Lupia Giuseppe di Senise, barbiere, amico di Giovanni Chiorazzi, il parrucchiere. E poi Chelino u nucëllærë. Segnava due gol a partita. Era un idolo, e pure lui di Senise. Indimenticabile.
Intanto cominciavano ad arrivare Giovanni Pozzovivo, mio fratello Ciccillo Armenti, Attilio Murro e qualche altro.
Una bella squadra vincente. 
Un altro aneddoto ve lo racconto e poi finisco.
Ora la squadra aveva un sacco di giocatori e tutti volevano giocare.
Una domenica si doveva giocare.
La formazione era già pronta. Qualcuno degli esclusi ci rimase così male che la notte si alzò, andò al campo e fece una porta a pezzi, cosi la Domenica non si poté giocare. 
Vendetta alla Chiaramontese. 
La prossima volta vi racconterò la storia dei miei tempi.


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Il nostro campo da calcio. Parte prima


Squadra di calcio Chiaromontese.


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di Pinuccio Armenti




Cari compaesani,
il calcio a Chiaromonte è stato sempre lo Sport piu' praticato.
Se vi fa piacere vorrei parlarne un pò con voi.
Sicuramente qualcuno della mia eta' si ricorderà dov’era il primo campo sportivo a Chiaromonte. No?
Allora ve lo dico io.
Nel 1950 avevo 6 anni. Il mio primo anno di scuola.
Usciti dalla scuola ci si riuniva davanti al Palazzo di Giura. Allora la strada era tutta libera senza auto parcheggiate e si giocava a calcio.
E il pallone?
A quei tempi chi lo aveva? Nessuno.
Si giocava con na buàtta vacàndë, quelle dei pelati. Poi le nostre mamme o zie (la mia zia Esterina era una brava sarta) ci facevano le palle di pezza.
Non rimbalzavano, però per scartare, oggi si dice dribblare, erano buonissime.
Ci si doveva accontentare.
Problemi di scarpe non ne avevo, perche' attanëmë ièrë scarpærë.
Io però volevo parlarvi del vero campo sportivo dove giocavano i grandi.
Non so di preciso come si chiami la contrada. Forse Gerardo Dragonetti può aiutarvi.
Allora era un pezzo di terreno sotto a Tembë dë l'Anghërë e vicino u pòndë du Zëccawuìë. Se non erro era propietà di Don Filippo De Marco, ma non ne sono sicuro.
A Novembre si arava, a Giugno si mieteva e dopo aver trebbiato si bruciava a rëstùccë. Poi dei volontari muniti di pale, rampini e altri attrezzi cercavano di togliere le pietre più grandi, s'apparavënë i fuòssë più grandi. Si mettevano le porte che qualche falegname regalava alla squadra e dopo si poteva giocare.
Vi ricordate i giocatori di allora? Io qualcuno lo ricordo.
Vediamo un pò…
In porta giocava Peppino Masciarelli. Era un pezzo di giovane quasi 2 metri alto. Abitava alla crùcë.
Poi mi sembra che andò in Polizia.
Poi c'era un altro Peppino Masciarelli, figlio di Concettina a levatrìcë, se non sbaglio erano cugini. Lui era non alto ma ben tarchiato, un vero difensore. Nella vita Geometra.
Poi c'era un certo Don Ciro che non ricordo il cognome. Veniva da Taranto e lavorava all' ufficio Imposte. Anche lui piccoletto ma ben piazzato. La cosa che mi rimase più impressa è che giocava senza scarpe. Solo con due paia di calzettoni.
Centromediano, allora si diceva cosi, erano Don Peppino Dolcetti, Umberto Ferrara, Pinuccio Dursi (Sciambiònë).
Tërùccë da mulënærë, fratello più grande del compianto Falùzzë. Il giudice Scutari non ricordo se giocava, io lo ricordo più come arbitro.
Poi ancora Sestilio Cicale un ala velocissima.
Di sicuro c'era qualche altro ma adesso mi sfugge. Capirete sono passati 72 anni.
Mi ricordo ancora che la porta di sopra era un pò in salita. A volte Umberto Ferrara sferrava certi calcioni sbilenchi che andavano a finire sotto u pòndë du Zëccawuìë. Allora noi bambini dovevamo correre e anche veloci perche ' c'era un solo pallone. Pallone con cicchetto e camera d'aria. Veniva legato cu nu chëriùlë di cuoio che quando facevi una testata ti lasciava un bel segno sulla fronte.
Le squadre che venivano spesso a giocare a Chiaromonte erano Carbone allora molto forte, Cersosimo, Noepoli, San Costantino, Fardella.
Da Luglio a fine Settembre si giocava tutte le Domeniche.
Non ricordo se andavano anche fuori casa.
Io allora abitavo proprio vicino al monumento, quindi con quattro salti arrivavo al campo.
Veniva tanta gente a vedere. Pero' le donne o qualcuno che non aveva voglia di scendere si mettevano nel monumento dietro a Catarìnë e dietro il cipresso avevano una vista meravigliosa.
Per noi bambini la domenica dopo pranzo era una gran festa. Non c'era altro. Ed io già incominciavo a sognare che da grande avrei voluto far parte della squadra del mio Chiaromonte.
La prossima volta vi parlerò del campo da Grùttë dë l'àcquë.

Vi saluto.

Vostro Pinuccio Armenti.



Giovanni Favoino Di Giura - Un Chiaromontese nel Mondo

Di Lucio Vitale
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Inserita in Archivio > I grandi Chiaromontesi


Favoino Di Giura, la voce degli italiani oltreoceano
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Il nobiluomo di Chiaromonte con la passione per il giornalismo



CHIAROMONTE Chissà cosa avrebbe da dire oggi sui problemi italiani, come la Casta politica, il forte divario tra Nord e Sud, e ultimamente perché no, su questo governo, e tanto altro ancora, un signor Giovanni Favoino Di Giura, che da giornalista “purosangue” ha raccontato oltreoceano 50 anni d’Italia, compreso 2 guerre mondiali.
Una lunga storia la sua che merita di essere conosciuta.
Nobile di stirpe, Giovanni nacque a Chiaromonte il 26 aprile del 1885 ed era figlio di Vincenzo Vittorio Favoino e Matilde di Giura, dei “baroni Di Giura”, zia, per intenderci, di quel Ludovico Nicola Di Giura, colonnello della Marina Militare Italiana che presso la corte Cinese fu medico personale dell’imperatrice Cixi e del piccolo imperatore Pu Yi della dinastia Qing e della sua corte imperiale nei primi del ‘900.
Fin da giovanissimo manifestò la sua passione per la scrittura, scrivendo componimenti poetici sotto il nome di “Giovanni da Forino”, in ricordo del podere che la famiglia possedeva nell’omonima contrada. In seguito scrisse numerosi libri, tra essi "Il carme alla luna" (Casa Editrice Malena, Buenos Aires - 1910), "Frammenti di Giornale" (Tipografia del Riachiuelo, Buenos Aires - 1912), "Gli italiani nella provincia di Entre Rìos" (Artes Graficas, Paranà - 1913), (Pei tipi del Carroccio, New York - 1923 e ristampa della Cocce Press - New York 1940), "Fatalyse" (Romanzo di un amore italo-americano), "Il ritorno alla culla" (Tragedia moderna), "Lo straniero" (Romanzo), "Occhi intenti" (Racconti e poesie) e "Trincea. Con i fanti della Brigata Avellino", in cui scrive della sua esperienza di guerra durante i primi mesi del suo arruolamento fino alla nomina a Sottotenente nel novembre del 1916 e "Antonio Meucci: il vero inventore del telefono".
Proprio su quest’ultima opera, Giovanni ripercorre la vita e tutte le tappe che portarono Meucci a realizzare la sua grande invenzione, ponendo l'accento su quegli elementi a favore dell'inventore italiano nell'annosa vicenda che lo vide contrapposto ad Alexander Graham Bell riguardo alla paternità del telefono.
L'opera, contiene documenti anche inediti di Meucci, come ad esempio il suo intero testamento che vide la luce in una prima edizione nel 1923 e fu poi ristampata nel 1940 con il titolo "Il vero inventore del telefono: Antonio Meucci". Una passione viscerale per la letteratura, ma che l’ho spinse ad intraprendere nuove strade diventando avvocato. Frequentò, infatti, il liceo classico "Archita" di Taranto, mentre nel 1906 si laureò in giurisprudenza presso la Regia Università degli Studi di Napoli "Federico II", con il massimo dei voti.
Terminati gli studi accademici, si trasferì a Roma, dove iniziò ad esercitare la professione di avvocato civilista. In quegli anni, accanto agli impegni professionali, Giovanni, iniziò a coltivare la passione per il giornalismo. Tale si rivelò l'amore per la carta stampata che decise di affiancare all'attività forense anche la professione giornalistica.
Fece il suo esordio come pubblicista per il quotidiano romano "Il Messaggero", con il quale collaborò durante gli anni vissuti a Roma. Dopo l'esperienza giornalistica capitolina, sempre più desideroso di allargare i propri orizzonti culturali e professionali, nel 1910 decise di emigrare a San Paolo del Brasile ove, direttore di un quotidiano in lingua italiana, condusse per circa due anni delle inchieste sulla condizione degli italiani nello Stato del Paraná
Successivamente si trasferì in Argentina, nella capitale Buenos Aires, per occuparsi in qualità di caporedattore della redazione de' "La Patria degli italiani", tra i quotidiani in lingua italiana di maggiore importanza tra quelli pubblicati fuori dalla madrepatria.
All'indomani della dichiarazione di guerra del 24 maggio 1915, Giovanni rientrò in Italia.
La targa commemorativa, affissa alla torre Di Giura, in
memoria della ingiusta prigionìa del padre Giuseppe, e
degli zii Giosuè e Domenico

Un passaggio importante da rilevare e che Giovanni era cresciuto con le ideologie patriottiche del nonno materno Giuseppe Di Giura, che partecipò ai moti carbonari del 1848 e che arrestato nel 1849, fu condannato dalla Gran Corte speciale di Basilicata a 7 anni di ferri. Scontò una parte della pena nelle galere borboniche di Nisida e di Procida e successivamente, nel 1854 fu trasferito nel carcere di Chiaromonte, ove si spense il 6 ottobre 1856 in nome della libertà e l’unità d’Italia. Sorte diversa per i fratelli Giosuè e Domenico.
Il primo, scagionato da tutte le accuse morì a Napoli nel 1844 e il secondo, Domenico, sacerdote letterato, affiliato alla “Giovane Italia”, arrestato nel 1851, ottenne l’indulto e fu liberato nel 1852 e fu sottoposto a vigilanza speciale nel suo paese (Chiaromonte) dove si spense nel 1882. Il ricordo dei racconti della madre Matilde, che gli narrava le patriottiche avventure del nonno Giuseppe e degli zii Giosuè e Domenico, fece nascere in lui il desiderio di servire la Madre Patria. Giunto in Italia, infatti, si arruolò volontario nel Regio Esercito nell'agosto del 1916 per prendere parte alla Prima guerra mondiale, come ufficiale di fanteria. Il suo reclutamento avvenne tra le file del 231º Reggimento della brigata "Avellino", costituita il 6 maggio 1916 e comandata dal Generale di Divisione Antonino Cascino. Giovanni Favoino Di Giura si distinse in particolar modo durante le operazioni belliche, condotte quasi esclusivamente in trincea, per la conquista dell'avamposto sul Monte San Michele di Gorizia, caposaldo del possente fronte di guerra predisposto dalle linee militari austriache. La guerra finì e Giovanni lasciò nuovamente l'Italia per trasferirsi a New York.
Giunto nella “Grande Mela”, Giovanni Favoino Di Giura iniziò la collaborazione con la rivista "Il Carroccio", mensile di cultura e difesa italiana in America. Nel 1924, fondò e diresse il mensile in lingua italiana "Il Vittoriale", i cui uffici avevano sede al 176 di Worth Street, sulla Second Avenue, nel cuore di Manhattan. Entrato in contatto con i più influenti rappresentanti della comunità italiana d'America, divenne in breve tempo un importante riferimento per tutti coloro che all'epoca si impegnavano per fare della propria italianità motivo di orgoglio. In quegli anni, oltre all'impegno editoriale, fu affascinato dal potere mediatico della radio, tanto da voler provare l'esperienza di giornalista radiofonico. Ebbe tale opportunità nel 1939, quando venne chiamato a commentare le news per gli italo-americani dagli studi di radio WBIL, una delle più conosciute tra le emittenti cattoliche newyorkesi di proprietà del notabile Angelo Fiorani (Fiorani Radio Productions Records), le cui trasmissioni avvenivano direttamente dalla chiesa di Saint Paul Apostle. Quelle che inizalmente sembravano sporadiche comparse nel mondo del giornalismo radiofonico, divennero per Giovanni un'opportunità per la divulgazione di massa dei concetti di integrazione sociale, politica ed economica da lui ritenuti fondamentali per la realizzazione di quella che considerava "una doverosa rivalutazione del prestigio storico e culturale dell'italianità", che rendesse giustizia a tutti gli immigrati italoamericani. Questi erano fortemente discriminati per i dilaganti pregiudizi diffusi dalla crescente propaganda nazionalista. Tali ideologie venivano espresse in apposite rubriche di approfondimento giornalistico, il cui autore era lo stesso Favoino di Giura, che così facendo richiamò l'attenzione, oltre che della comunità italoamericana, anche della critica socio-politica della metropoli, la quale gli tributerà una citazione nell'annuario dell'American Academy of Political and Science in un articolo di Clyde R. Miller del 1941, per il contributo dato all'aggregazione ed allo sviluppo sociale e culturale della comunità italiana in America. Frequentando i salotti dell'alta società newyorkese, strinse amicizia con personalità illustri di origine italiana della politica, della cultura e dell'arte, tra cui il pittore Arturo Noci, che realizzò l'acquerello successivamente utilizzato per la copertina del libro "Occhi Intenti", il tenore Beniamino Gigli, la star radiofonica Ubaldo Guidi Buttrini, il Barone Osvaldo Cocco, il lucano Giovanni Riviello, direttore de "La Basilicata nel Mondo" e de "Gli Italiani nel Mondo", il Vicenconsole De Cicco e l'influentissimo magnate dell'edilizia e dell'editoria Generoso Pope, proprietario di testate giornalistiche quali il "Bollettino della sera" (sul quale Favoino di Giura pubblicò diversi suoi articoli), "Il corriere d'America", "L'opinione" ed il più blasonato "Il Progresso Italoamericano". Erano gli anni che precedevano lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e Giovanni Favoino Di Giura fu nominato Direttore de "Il Progresso Italoamericano" (dal 1988 divenuto "America Oggi"), storico quotidiano newyorkese in lingua italiana, da sempre testimone e voce dell'emigrazione negli Stati Uniti. La comunità italiana della Grande Mela, pur essendo in una fase di rapida espansione, non aveva ancora un rappresentante che ne tutelasse gli interessi e che si facesse portavoce nello scenario politico che si andava configurando negli Stati Uniti. Con il suo ingresso nel giornale, Giovanni, diede nuova linfa alla direzione del giornale, raggiungendo all’epoca, la vetta delle vendite con una tiratura di oltre 90.000 copie diffuse. Lo spirito era tutto incentrato sulla promozione dell'identità, della cultura e della storia degli italoamericani, affinché ogni italiano prendesse coscienza delle proprie potenzialità e le mettesse in campo per stringere un legame sempre più forte con le istituzioni, in altre parole, Giovanni, credeva nella necessità di avere dei rappresentanti politici di origini italiane nel governo americano a tutela della stessa comunità e delle generazioni che ne sarebbero seguite. Chiaramente la linea editoriale data da Giovanni a “Il Progresso italoamericano” attirò l’attenzione delle “Intelligence” come l’Fbi, che, soprattutto all’acuirsi delle tensioni che a breve sarebbero sfociate nella Seconda guerra mondiale, vedevano nella testata giornalistica da lui diretta, così come in altre iniziative editoriali capitanate da altri italiani, un mero strumento di propaganda d'oltreoceano al regime fascista. In quest’atmosfera di pregiudizi e di fobia irrazionale, Giovanni, insieme ad altri innumerevoli esponenti della comunità italoamericana di New York, venne internato per diversi mesi con il solo scopo di sopire le crescenti paure delle autorità militari americane nei confronti degli immigrati italiani. Per fortuna in difesa della comunità italoamericana, rastrellata quotidianamente dalla polizia, intervenne il Presidente Roosevelt in persona, consentendo a Giovanni, e a molti suoi connazionali di riacquistare la proria libertà. Lo stesso Roosevelt, in seguito, ricevette alla Casa Bianca una rappresentanza di italoamericani tra i quali il Favoino di Giura. Dopo l’infausta esperienza dell'internamento, Giovanni si trovò di fronte ad un radicale mutamento nella struttura sociale delle comunità italoamericana e delle ideologie che, fino ad allora, avevano accompagnato il suo operato professionale in terra d'America, sempre e comunque condizionato dagli avvenimenti socio-politici della madrepatria. Nell'Italia degli anni '40 il regime fascista si disgregò e andò affermandosi il partito della Democrazia Cristiana che, partecipando al Comitato di Liberazione Nazionale, assunse la veste di fazione politica moderata, vicina alla Chiesa e alquanto vaga nei confronti della Monarchia. I giornali italoamericani, stimolati dal Governo degli Stati Uniti che temeva per una vittoria del Fronte Democratico Popolare durante le elezioni politiche italiane del 1948, approntarono un’incisiva campagna elettorale rivolta ai cittadini residenti in Italia perché non votassero per i gruppi politici filosovietici. Migliaia di italoamericani furono invitati a scrivere lettere ai propri cari in Italia, per spingerli a votare a favore dei canditati democristiani, considerati come amici leali dell'America. Questa manovra dell’amministrazione Truman, che successe a Roosevelt nel 1945, non piaceva a Giovanni che, non identificando nella Democrazia Cristiana un valido deterrente alle mire espansionistiche dell'Unione Sovietica sull'Europa Occidentale, considerava il Partito Monarchico e il Movimento Sociale Italiano quali unici partiti dal “contenuto di purissima idealità nazionale e la sola vera antitesi del comunismo”. Per tali divergenze ideologiche, Giovanni abbandonò la direzione de "Il progresso Italoamericano" per passare al quotidiano "Il Popolo Italiano". Questo fu l’ultimo giornale dove lavorò, prima di ritirarsi e passare gli ultimi anni della sua vita in privato con la sua famiglia. Si sposò 2 volte, ma su entrambe le mogli si hanno poche notizie a riguardo. Dalla prima moglie, Fanny Bignani dei Conti della Scala ebbe due figli (Enzo Vittorio e Matilde), ma divorziò. La seconda moglie fu l’ereditiera Maria Nilles, dalla quale ebbe il terzo figlio (Gabriele). Dopo alcuni anni trascorsi con la nuova famiglia nel Granducato lussemburghese, Giovanni rimase poco dopo vedovo della seconda moglie, e decise così di rientrare in Italia per stabilirsi definitivamente a Chiaromonte, dove era nato e dove morì il 29 novembre del 1967 all’età di 82 anni. Di Giovanni Favonio Di Giura rimangono 2 eredità, quella civile e quella privata: La prima, quella che ogni concittadino dovrebbe cogliere leggendo questa sua straordinaria vita e quella che anche da un piccolo paesino del sud della Basilicata tutti noi possiamo aspirare a grandi traguardi personali se crediamo veramente nelle nostre passioni e nelle nostre idee. Da qui possiamo coniare il motto «Non c'entra da dove veniamo, ma cosa valiamo e cosa vogliamo fare nel mondo». L’altra eredità di Giovanni, quella “genetica”, riguarda la sua progenie, una famiglia stimata e ben voluta da tutti, professionalmente impegnata anche fuori dai confini strettamente lucani, ma ben legata da un cordone ombelicale al proprio paese, Chiaromonte, che portano nel loro cuore e dove passano sempre le loro vacanze. Ecco perché la figura di Giovanni, a ben 45 anni dalla sua morte, merita più che mai di essere ricordata, e perché no, essere da esempio di stile e di vita da tramandare con orgoglio anche alle generazioni future di Chiaromonte.



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U viërnëdì Sàndë

Gesù morto. Statua degli inizi del XX sec.
Chiesa San Tommaso - Chiaromonte
Foto: Ministero Beni Culturali



Di Pinuccio Armenti

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Pochi giorni fa mi soffermai a parlare di quando in una delle processioni del venerdì Santo, furono fatti uscire due statue del Cristo morto, che alla fine sarebbe toccato alla chiesa di San Tommaso, ma per dispute storiche, anche San Giovanni portò il suo, oltre che la statua dell’Addolorata.
Ovviamente, non mi soffermo nel fare i nomi dei parroci, anche perché conoscete la storia e anche i diretti interessati, e questa accadde quando ero già in Germania.
Ai miei tempi si viveva in grande armonia i giorni della settimana Santa.
Il venerdi Santo la Chiesa Cattolica copre tutte le rappresentazioni grafiche e scultoree del Cristo con un velo viola come segno di lutto, ed anche a Chiaromonte era cosi.
Noi chierichetti, subito dopo pranzo, ci radunavamo in chiesa, e tutti muniti di na tròccuwë.
Quella della parrocchia era lunga almeno 80 cm. Aveva ad ambo i lati delle specie di maniglie in metallo che come le muovevi usciva un rumore fortissimo, ed infatti, per suonarla, bisognava essere in due.
Le tròccuwë rimpiazzavano le campane che sin dal giovedì sera erano state messe al silenzio in segno di lutto.
E allora si cominciava.
Si partiva da San Tommaso, e io appartenevo alla sua chiesa, e si passava pu tëmbònë, a chiazzòllë, alla tèmbë fino sopra u mùrë da pòrtë, nàndë a putèghë dë màstë Luiggë Mustàzzë.
Se non ricordo male, anche la vecchia caserma apparteneva a San Tommaso.
I chierichetti di San Giovanni, nel mentre, facevano i loro vicinati.
E ca tròccuwë ca sunævë, almeno per un paio d'ore, urlavamo come quando si buttava il bando:

“Allë cìnghë tuttë alla prëcëssiònë”.

Poi si tornava in chiesa dove il prete, buonanima, ci faceva trovare delle gazzose e delle aranciate della ditta Ferrara, cosi da poterci dissetare.
Dissetati e con sudore asciutto, eravamo pronti per vestirci.
Sottana, cotta e berretta.
Assummëgliæmmë a tandë prëvëtìcchië, e a dire la verità, n’avandàmmë nu picchë.
Iniziarono cosi le preghiere dinnanzi al Cristo morto, e dopo una mezzoretta circa, finalmente partiva la processione.
Noi chierichetti avanti.
Dopo di noi gli uomini che portavano a spalla la statua, e a seguire il prete e le pie donne, che in chiaromontese chiamiamo o pëzòchë, e a seguire tutti gli altri.
Si pregava e cantava fino all’arrivo al Calvario, dove ci si incontrava con gli altri, quelli della chiesa di San Giovanni che portavano in processione la statua della Madonna Addolorata.
Davanti al Calvario e alle sue cinque croci, si faceva una piccola via crucis.
Madonna e Gesù morto vicini, Era un momento bellissimo. Era come respirare gioia e tristezza nello stesso momento.
Ci si incamminava fino alla piazza dove ci si fermava, per poi rientrare la Madonna nella Chiesa Madre, e il Cristo morto nella chiesa di San Tommaso con i loro cortei. Per noi ragazzi era stato un giorno faticoso, ma pensavamo già al giorno dopo: il sabato Santo. 

Venerdì Santo 2017
Foto Francesco Chiorazzi


 


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