A proposito del dialetto e di un nuovo metodo di insegnamento
(La tribuna di Basilicata – Luglio 1983)
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Prof. Domenico Breglia
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Il prof. Domenico Breglia, a sinistra, in un frammento di "Chiaromonte, un paese dentro di noi". Rai 1980 |
Spesso è stata trascurata la lingua volgare «dialetto» per la troppa importanza data a quella classica, che, legata all’indirizzo umanistico secondo gli ideali tramandatici dal mondo greco-romano-bizantino, è ritenuta più elegante e nobile.
Ritengo che neppure il dialetto, benché rustico, debba essere dimenticato: esso è il linguaggio più ricco di espressioni, più spontaneo, più comunicativo e pratico.
D’altra parte il dialetto non è nemico della lingua nazionale, se si tiene conto che questa è nata volgare.
Per questo il dialetto deve essere tenuto in migliore considerazione e, prima di affrontare il problema dell’apprendimento della lingua nei soggetti che si esprimono in dialetto «occorre capovolgere l’impostazione voluta dalla tradizione classica, e partire ogni volta dagli uomini, accettandoli per quelli che sono nella realtà di tutti i giorni, e non per quelli che potrebbero essere nell’ordine di una esperienza ideale passata o dell’avvenire».
Oggi siamo a un buon punto di rinnovamento della vecchia cultura, poiché ci stiamo interessando ad un nuovo metodo d’insegnamento «quello psicologico» in sostituzione dell’altro puramente logico. Il metodo psicologico o naturale o globale vuole – questo è importante – che l’apprendimento del sapere inizi dalla «nostra personale necessità di esprimerci cominciando in spirito di concretezza con una educazione progressiva, procedente dagli elementi noti a quelli non conosciuti irraggiatesi intorno a centri di interessi diversi secondo le persone, i luoghi, e gli ambienti.
Ne consegue che la cultura presupponendo l’uomo, avrà come oggetto tutto l’uomo.
Ne consegue che la cultura presupponendo l’uomo, avrà come oggetto tutto l’uomo.
Così i primi vaghi e disordinati movimenti che il neonato compie istintivamente con gridi, lamenti, mormorii, suoni inarticolati sono delle vere e proprie espressioni: egli, muovendosi con le mani, con la bocca, con gli occhi; si muove contemporaneamente con tutto il suo nascente spirito.
Molti i tentativi, le prove per riuscire nel suo intento, e, benché piccino manifesta molto bene le soddisfazioni e le gioie delle prime vittorie ma anche le mortificazioni delle sue sconfitte.
Nel grande desiderio di toccare, palpare, stringere, gettare, rompere quante più cose gli sia possibile, il bambino ha occasione di misurare le sue forze e aumentare sempre più tutte le sue capacità. Essendo convinto, perciò.
Di ciò che fa, va oltre per meglio armonizzare la sua globale conoscenza, per meglio adoperare il suo linguaggio ricco di sensazioni; verso i tre anni e oltre, pur avendo raggiunto una certa autonomia in tutto, continua ad interessarsi delle cose da cui ricava nuove sensazioni ed emozioni, altre immagini ma anche la sua lingua.
La lingua del bambino è pienamente rispettata laddove viene rispettata la parlata locale, laddove viene rispettato il suo linguaggio psicologico, fatto di interessi eminentemente sensoriali e pratici, motori e dinamici.
Purtroppo le cambiano per molti bambini nel momento in cui essi, dopo i tre anni, cominciano a dimostrare di essere grandi in quanto alla parola. Allora le famiglie più istruite preferiscono seguire per la formazione linguistica dei propri figli il metodo logico più rispondente ai gusti della lingua più raffinata (colta).
Ne consegue però che sono evidenti i segni di turbamento e di disorientamento dei bambini stessi, giacché essi sono costretti a riflettere anzitempo. Soffrono in casa, sapendo che i loro interessi e la loro lingua sono fuori, sulla strada, nel cortile, nelle botteghe, al mercato, nel giardino o in campagna. Talora ad essi non è permesso giocare fra i compagni che parlano il dialetto: stupore, meraviglia, solo pregiudizi!
Molti figli non hanno avuto la preoccupazione della lingua colta, hanno parlato il dialetto, si sono espressi sempre e ovunque in dialetto, eppure nessuna conseguenza negativa è stata notata nella loro «formazione linguistica», anzi i risultati sono stati a volte sorprendenti: essi, con il dialetto, sono stati in grado di risolvere problemi in ordine ai loro giochi. In seguito, oltre al dialetto hanno parlato bene anche la lingua italiana, importante quanto il dialetto, giacché come giustamente asserisce Carla Schich nel suo libro «il linguaggio», - «la lingua e il dialetto sono nelle varie località entità complementari legate da un rapporto che muta nel tempo».
Molti figli non hanno avuto la preoccupazione della lingua colta, hanno parlato il dialetto, si sono espressi sempre e ovunque in dialetto, eppure nessuna conseguenza negativa è stata notata nella loro «formazione linguistica», anzi i risultati sono stati a volte sorprendenti: essi, con il dialetto, sono stati in grado di risolvere problemi in ordine ai loro giochi. In seguito, oltre al dialetto hanno parlato bene anche la lingua italiana, importante quanto il dialetto, giacché come giustamente asserisce Carla Schich nel suo libro «il linguaggio», - «la lingua e il dialetto sono nelle varie località entità complementari legate da un rapporto che muta nel tempo».
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Non avevo mai avuto occasione di leggere questo breve saggio del compianto amico Prof. Breglia ma l'ho trovato interessantissimo e quanto mai attuale. Credo che molti dovrebbero leggerlo.
RispondiEliminaEmanuele Giglio.