Di Pinuccio Armenti
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Storia inserita in archivio > Chiaromontesi raccontano
nota: in questa storia non ho apportato alcuna correzione nelle parole in dialetto, e tantomeno nel modo di scrivere.
Pinuccio manca dal paese da sessant'anni, gli stessi in cui vive in Germania, e desidero che tutti voi siate testimoni del suo amore immutato verso il nostro paese, il più bello del mondo.
Màstë Paolo “Ciuccëgnàgnë” Sassano. Foto di Gianpaolo Reale |
A quei tempi Chiaromonte aveva un 3500 abitanti, più tanta gente che abitava nelle campagne.
C'erano le scarpe per tutti i giorni e le scarpe per i giorni di festa. Poi quelle per andare in campagna e o scarpe pu viern.
Anguna puteghella ma ricord ancora.
Mio papà aveva la sua vicino a quella di Mast Paul u tict, di front u balcon da ches di don Franco Ferrara.
Pasquale Tombola avie 300 m chiù abbasc, per quelli più giovani, vicino il Mini Market di Mario Percoco, solo che a quei tempi c'era la sartoria di Egidio Ricciardi, nu fratello di Giovanni u portalettere.
Ndonio u Rimient, o Armenti, l'aveva sotto casa sua.
Umbert Pesce jere vicin a ches di Mast Jenner da zoppa che probabilmente prima c'era stato lui.
Poi le altre non le ricordo.
Il materiale come tomaie, suola, spago, pece , chiodi e tacce mio papà li comprava a Francavilla.
La tomaia era la cosa principale per una scarpa. Poteva essere in cuoio o in pelle. Il cuoio era per tutti i giorni. Quelle in pelle erano per le scarpe della festa. Poi c'erano le tomaie per le scarpe di campagna.
Non ricordo che materiale fosse. Però ricordo che dopo averle finite venivavo insivate.
Il sivo non so se è una parola italiana. Era un grasso che se non sbaglio veniva ricavato dal maiale dopo averlo ammazzato.
Per fare un paio di scarpe a quei tempi ci volevano almeno 9 o 10 ore.
Certo allora si faceva tutte a mano.
La tomaia, quella era già pronta. Veniva fatta in fabbrica.
La suola si comprava a pezzi, poi veniva tagliata in base alla grandezza della tomaia.
Si metteva per un giorno, a volte anche più, a bagno in acqua per ammorbidirla, cosi era più facile lavorarla. Tolta dall'acqua veniva battuta.
Mio papà aveva un arnese di ferro, una ventina di cm, a forma di triangolo. Lo metteva sul ginocchio, poi metteva la suola su questo arnese che non so se avesse un nome specifico, e con il martello cercava di ammorbidire la suola, tagliata su per giù alla misura della tomaia. Dalla suola erano stati tagliati anche due strisce che chiamavano u guardione, anche esse messe a bagno.
Erano molto importanti perché venivano cucite con spago impeciato fra suola e tomaia per mantenere il tutto.
Parecchie volte u guardione lo usava anche sulle mie gambe quando disubidivo.Bello bagnato com'era faceva un male infernale.
Poi ricordo un altro particolare.
C'erano dei clienti che volevano le loro scarpe "cu fruscio ".
Quando camminavano facevano un rumorino, però non chiedetemi il segreto du "fruscio".
Quelle scarpe erano più per le feste.
Per quelle di campagna e quelle invernali si usava una tomaia diversa, più alta.
Arrivava sopra all'osso spizzill.
La tomaia era di un materiale più robusto, e anche la suola era più spessa. Poi sotto venivano messe due, e a volte anche tre file di Taccie, per i più giovani, o taccie erano una specie di chiodi con la testa quadrata abbastanza robusti, e i mettevano per far resistere le scarpe più a lungo.
Era una scarpa per i contadini, perciò era uscito il detto “Contadino, scarpa grossa cervello fino”.
Gli arnesi, o i fierri come si diceva in dialetto, che usava u scarper non erano tanti.
Base prima era nu bancariell dove poter posare gli attrezzi, curtiell, martiell, tenaglia, diverse tipi di suglie (asole?), forme in legno ed in ferro.
Non vorrei sbagliarmi ma c'era qualcosa che si chiamava “u pede di puorco”, però non ricordo a cosa servisse.
Sono passati 70 anni, scusatemi se sbaglio qualcosa.
Il materiale, lo ripeto, tomaie, suola, gomma, spago, pece, dopo venne il mastice, chiodi, taccie e naturalmente una sedia. E poi ci serviva anche il talento du Mastr. Dovevi saper usare le mani con precisione se volevi un buon risultato.
Di lavoro ce n'era tanto. I calzolai lavoravano tutti.
La cosa non tanto bella era che a quei tempi non c'erano tanti soldi in giro. La gente aveva poco lavoro e a volte ci voleva tempo per racimolare i soldi per pagare le scarpe.
A volte si pagava in natura, con un paio di litri di olio, con della farina, con dei legumi e a volte anche con il vino. Oppure si diceva: Ue, Mast Giua, mitte a segne ca po ti peg. E così piano piano i calzolai incominciarono a diminuire.
Chi andò in Toscana, chi a Torino, chi cambio mestiere, chi mise un negozietto.
Mio papà se ne venne con me in Germania e ci restò per una quindicina di anni.
Quello che resistette fino in ultimo fu' Peppino u Rimiend. Lui fu il più intelligente di tutti . Lui le scarpe non le faceva più ma le vendeva. Ormai si potevano comprare già fatte.
Però non aveva abbandonato del tutto. Qualche mezza suola, qualche sopratacco o piccole riparazioni le faceva ancora.
Voglio finire cosi.
Mio papà dopo 15 anni di Germania, tornato a Chiaromonte, ormai pensionato, ritrovò la passione per il suo mestiere.
Prese in affitto quella putighella vicino la casa di Mast Jenner da zoppa, dove già avevano lavorato parecchi calzolai, rispolverò i suoi arnesi. U bancariell c'era ancora e ricomincio' ad aggiustare scarpe, non a farne nuove, solo riparazioni. Ora gli affari andavano a gonfie vele, anche perché erano solo in tre. Adesso non segnava più sul suo quaderno, adesso usava il metodo tedesco. Scarpe finite soldi alla mano.
I tempi erano migliorati e i soldi circolavano di più.
Peccato che dopo 3 anni ci lasciò per sempre.
Voglio scusarmi se ho dimenticato qualcuno ma allora erano veramente tanti i scarper al nostro paese, e sono passati 70 anni.
Scusate anche il mio stile di scrivere, forse a volte anche grammaticalmente non tanto corretto.
Col nostro dialetto non ho probemi, ma con l'italiano...
C'erano le scarpe per tutti i giorni e le scarpe per i giorni di festa. Poi quelle per andare in campagna e o scarpe pu viern.
Anguna puteghella ma ricord ancora.
Mio papà aveva la sua vicino a quella di Mast Paul u tict, di front u balcon da ches di don Franco Ferrara.
Pasquale Tombola avie 300 m chiù abbasc, per quelli più giovani, vicino il Mini Market di Mario Percoco, solo che a quei tempi c'era la sartoria di Egidio Ricciardi, nu fratello di Giovanni u portalettere.
Ndonio u Rimient, o Armenti, l'aveva sotto casa sua.
Umbert Pesce jere vicin a ches di Mast Jenner da zoppa che probabilmente prima c'era stato lui.
Poi le altre non le ricordo.
Il materiale come tomaie, suola, spago, pece , chiodi e tacce mio papà li comprava a Francavilla.
La tomaia era la cosa principale per una scarpa. Poteva essere in cuoio o in pelle. Il cuoio era per tutti i giorni. Quelle in pelle erano per le scarpe della festa. Poi c'erano le tomaie per le scarpe di campagna.
Non ricordo che materiale fosse. Però ricordo che dopo averle finite venivavo insivate.
Il sivo non so se è una parola italiana. Era un grasso che se non sbaglio veniva ricavato dal maiale dopo averlo ammazzato.
Per fare un paio di scarpe a quei tempi ci volevano almeno 9 o 10 ore.
Certo allora si faceva tutte a mano.
La tomaia, quella era già pronta. Veniva fatta in fabbrica.
La suola si comprava a pezzi, poi veniva tagliata in base alla grandezza della tomaia.
Si metteva per un giorno, a volte anche più, a bagno in acqua per ammorbidirla, cosi era più facile lavorarla. Tolta dall'acqua veniva battuta.
Mio papà aveva un arnese di ferro, una ventina di cm, a forma di triangolo. Lo metteva sul ginocchio, poi metteva la suola su questo arnese che non so se avesse un nome specifico, e con il martello cercava di ammorbidire la suola, tagliata su per giù alla misura della tomaia. Dalla suola erano stati tagliati anche due strisce che chiamavano u guardione, anche esse messe a bagno.
Erano molto importanti perché venivano cucite con spago impeciato fra suola e tomaia per mantenere il tutto.
Parecchie volte u guardione lo usava anche sulle mie gambe quando disubidivo.Bello bagnato com'era faceva un male infernale.
Poi ricordo un altro particolare.
C'erano dei clienti che volevano le loro scarpe "cu fruscio ".
Quando camminavano facevano un rumorino, però non chiedetemi il segreto du "fruscio".
Quelle scarpe erano più per le feste.
Per quelle di campagna e quelle invernali si usava una tomaia diversa, più alta.
Arrivava sopra all'osso spizzill.
La tomaia era di un materiale più robusto, e anche la suola era più spessa. Poi sotto venivano messe due, e a volte anche tre file di Taccie, per i più giovani, o taccie erano una specie di chiodi con la testa quadrata abbastanza robusti, e i mettevano per far resistere le scarpe più a lungo.
Era una scarpa per i contadini, perciò era uscito il detto “Contadino, scarpa grossa cervello fino”.
Gli arnesi, o i fierri come si diceva in dialetto, che usava u scarper non erano tanti.
Base prima era nu bancariell dove poter posare gli attrezzi, curtiell, martiell, tenaglia, diverse tipi di suglie (asole?), forme in legno ed in ferro.
Non vorrei sbagliarmi ma c'era qualcosa che si chiamava “u pede di puorco”, però non ricordo a cosa servisse.
Sono passati 70 anni, scusatemi se sbaglio qualcosa.
Il materiale, lo ripeto, tomaie, suola, gomma, spago, pece, dopo venne il mastice, chiodi, taccie e naturalmente una sedia. E poi ci serviva anche il talento du Mastr. Dovevi saper usare le mani con precisione se volevi un buon risultato.
Di lavoro ce n'era tanto. I calzolai lavoravano tutti.
La cosa non tanto bella era che a quei tempi non c'erano tanti soldi in giro. La gente aveva poco lavoro e a volte ci voleva tempo per racimolare i soldi per pagare le scarpe.
A volte si pagava in natura, con un paio di litri di olio, con della farina, con dei legumi e a volte anche con il vino. Oppure si diceva: Ue, Mast Giua, mitte a segne ca po ti peg. E così piano piano i calzolai incominciarono a diminuire.
Chi andò in Toscana, chi a Torino, chi cambio mestiere, chi mise un negozietto.
Mio papà se ne venne con me in Germania e ci restò per una quindicina di anni.
Màstë Pëppìnë “u scarpærë” Rëmièndë. Foto di Giovanni Monaco |
Però non aveva abbandonato del tutto. Qualche mezza suola, qualche sopratacco o piccole riparazioni le faceva ancora.
Voglio finire cosi.
Mio papà dopo 15 anni di Germania, tornato a Chiaromonte, ormai pensionato, ritrovò la passione per il suo mestiere.
Prese in affitto quella putighella vicino la casa di Mast Jenner da zoppa, dove già avevano lavorato parecchi calzolai, rispolverò i suoi arnesi. U bancariell c'era ancora e ricomincio' ad aggiustare scarpe, non a farne nuove, solo riparazioni. Ora gli affari andavano a gonfie vele, anche perché erano solo in tre. Adesso non segnava più sul suo quaderno, adesso usava il metodo tedesco. Scarpe finite soldi alla mano.
I tempi erano migliorati e i soldi circolavano di più.
Peccato che dopo 3 anni ci lasciò per sempre.
Voglio scusarmi se ho dimenticato qualcuno ma allora erano veramente tanti i scarper al nostro paese, e sono passati 70 anni.
Scusate anche il mio stile di scrivere, forse a volte anche grammaticalmente non tanto corretto.
Col nostro dialetto non ho probemi, ma con l'italiano...