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C'era una volta un Re

di G.D. Amendolara
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Storia inserita in Archivio > Storie Chiaromontesi

Mi scuso con i lettori per la possibile presenza di errori ortografici, ma nonostante il poco tempo a disposizione, non ho voluto mancare nel ricordare un grande personaggio Chiaromontese nel giorno del ventesimo anniversario della sua scomparsa, il 28 dicembre 2004.


"Uno, due, tre
evviva u Re"

Se dovessi parlare di colui che sto per raccontare come farebbe chiunque, allora comincerei così…
C’era una volta Maumà, 
che da sobrio tanto odiava questo nome.
Lo conoscevano tutti, quasi fosse il personaggio più importante del paese.
Amava esibirsi con i suoi abiti eccentrici, i suoi balletti e dimostrando ai più giovani che lo invitavano a giocare a calcio quelle peripezie che tanto lo resero celebre nelle storiche partite tra paesi limitrofi, e non solo.
Ecco…
Continuerei così per ore, giorni, entrando nei minimi particolari, anche quelli sconosciuti a molti, tralasciando però quegli aspetti importanti che mi hanno spinto a scrivere di lui, per questo ricomincio…
C’era una volta un Uomo,
che la vita ebbe segnata sin dal giorno della nascita.
Pagò caramente la disobbedienza verso quella madre amorosa e desiderosa di vederlo realizzato altrove, finendo sotto il bersaglio di chi cuore non aveva, come colui che lo pagò del duro lavoro donandogli del cibo da mangiare insieme ai maiali.
Conobbe così il peggiore dei suoi mali, colui che lo trasformò in Maumà, per i troppi un ubriacone abitudinario, un disadattato, un giullare del quale ridere durante le sue bizzarrie.
Cominciò così a cercare la felicità donandone agli altri in mille modi possibili travestendosi in modo eccentrico, con i suoi balletti memorabili e accettando persino sfide pericolose, tra le quali quella che lo immortalò in una foto rimasta per anni nella bacheca in piazza.
Era appassionato di calcio, soprattutto giocato, tanto da definirsi Re, inconsapevole che quel titolo gli sarebbe calzato a pennello, perché di animo buono e nobile.
Odiava nel frattempo quel nomignolo datogli per sfottò, dimostrando appena possibile di non essere ciò che consideravano.
Amava Chiaromonte, i Chiaromontesi e la vita, tanto da salvarne tante, di vite, grazie al suo essere donatore di sangue universale, volontario e disponibile, sempre, anche quando, armato di pala, era il primo a spalare la neve per le vie del paese, quando di neve ne cadeva tanta.
Il Re, qualche settimana prima della sua scomparsa

D’un tratto però il peggiore dei suoi mali gli presentò il conto e lo ammalò malamente e, nonostante la resistenza e l’attaccamento alla vita, lo spense in un freddo giorno d’inverno.
Chiaromonte perse così il suo RE, uno tra i più grandi Chiaromontesi della storia, un uomo buono, educato, disponibile, un Signore anche con coloro che in vita lo ignorarono.


In ricordo di Antonio Vitale
"U Rè"

Chiaromonte 1947
Potenza 2004

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OTTO DICEMBRE, UN GIORNO, DUE FESTE

Di G.D. Amendolara
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Storia inserita in Archivio > Storie Chiaromontesi

Due generazioni in grotta agli inizi degli anni 2000.
Foto G. Durante

Chiaromonte, 8 dicembre.
Il sole è sorto da poco e il suo fievole calore lotta contro l’impenetrabilità del freddo.
La neve sulle montagne alimenta in noi la speranza di vederne cadere sul paese, ma raramente accade prima di Natale. Al massimo spolvera e scatena le ire di chi raccoglie le olive.
Al forte odore dei camini accesi si sposa quello del fritto.
È festa, è da ‘Mmaculætë, e i scaudatièllë non pònë mangæ.
Sono i dolcetti tradizionali, chiamati anche i dòlcë di pòvërièllë per i pochi ingredienti che richiedono, come a pëgnulætë, arricchita però dal miele e dagli zuccherini colorati.
Per le zeppole e i cauzungìnë c’è ancora da aspettare, ma in qualche casa è possibile trovarne, se tempo e forza lo hanno permesso, vista la campagna di raccolta delle olive che impegna quasi tutte le famiglie.
Alle dieci e mezza la campana della chiamata riempie la piazza. Centinaia di fedeli, ben vestiti, acconciati e ‘mbërluccætë, affollano all’inverosimile la chiesa per la solenne messa, mentre all’esterno il passeggio si riempie di gente, così come i bar aperti.
A mezzogiorno risuonano le campane. È finita la messa e i fedeli escono ammaliati dal presepe realizzato dai volontari e dal parroco.
In un niente si svuotano la piazza, il passeggio e i bar. È ora di pranzo, e ora viene il bello, perché è du SpërtusaVùttë, e u vìnë nuòvë s’edda assaggiæ.
Che prëcëssiònë dòppë mangiætë pë dërètë i mùrë, in paese e pùrë pë fòrë.
Nessuna grùtta chiusa. Tutte aperte, cu përtùccë pròndë e anguna cosarèllë da mangiæ sòpë a buffëttèllë.
In qualcuna si porta avanti ancora un’antica tradizione legata sia alla festa che al periodo di caccia. Infatti, proprio i cacciatori nel giorno dell’Immacolata servivano ai loro compari un gatto selvatico cucinato ‘nda pëgnætë. Anche chi non è cacciatore cercava e cerca di portarla avanti, ma con uno dei tanti gatti randagi che girano in paese¹.

SpërtusaVùttë anni 30.
Foto Enzo Figundio

La sirena delle diciassette ufficializza l’inizio delle feste natalizie.
Partono le canzoni dall’altoparlante sul campanile. Le classiche din don dan, tu scendi dalle stelle, astro del ciel e le zampogne che spesso pare prendano una curva alla cuccætë a causa della cassetta o dell’LP ormai datati.
Fanno la loro comparsa anche i petardi, che sino a capodanno non lasceranno indenni nemmeno i bidoni della spazzatura.
Mancano solo le luci e gli addobbi nei negozi e per le strade, ma come sempre, se non è il quindici non faranno la loro comparsa.
Scende così la notte su Chiaromonte.
Le strade vuote d’un tratto si riempiono dë scìmmië e cuccuvèllë ‘mbëllëcciætë² ca murë murë së rëcògliënë alla cæsë.
Smette di fumare l’ultimo camino.
Il silenzio si sposa col gelo, e con l’ultimo botto che spara lontano finisce l’otto dicembre, per Chiaromonte un giorno, due feste.
E còmë a nièndë arrìvë Natælë…


Note:

1 Una tradizione del tutto perduta, almeno...
2 scìmmië e cuccuvèllë ‘mbëllëcciætë sono tre modi di dire di una persona ubriaca, alticcia.

Storie allegate
(Cliccate sul titolo)


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U TËSÒRË DU ZËCCAWUÌË

di G.D. Amendolara
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Storia inserita in Archivio > Arræsë u fuòchë


U Pòndë du Zëccauìë.
Foto. Rosaria F. Amendolara

“È mattina presto.

Ciccillo è sveglio, pronto per affrontare una nuova giornata di lavoro e sacrifici.
Alle prime luci dell’alba si incammina per raggiungere i terreni oltre i confini del centro abitato.
Arrivato a Santa Maria, a pochi passi dal varco du Pòndë du Zëccawuìë, della terra da poco rimossa e panciuta attira la sua attenzione.
La curiosità prende il sopravvento e lo sollecita a scavare.
Riporta alla luce un pesante recipiente di terracotta. Lo estrae, lo rompe. Meraviglia, un tesoro!
In quello stesso momento compare una donna. La conosce, è del paese.
“Buongiorno Cëccì” saluta.
“Che stætë facènnë assëgnërië?” gli chiede.
“Buongiorno Rusì” fa Ciccillo con espressione piena di meraviglia.
“Quìllë ca stæghë facènnë ì u putìtë fæ purë vuië”…

Il Ponte dal verso "Tempa degli Angari".
Foto Rosaria F. Amendolara

Chiaromonte.
Siamo a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso.
È mattina presto, ancora buio.
Puntuale Ciccillo si sveglia.
È incredulo. È nel suo letto, non è allu Pòndë du Zëccawuìë, e non ha nulla tra le mani.
Era un sogno, solo un maledettissimo sogno troppo reale per crederlo tale.
Alle prime luci dell’alba varca la soglia di casa. Ha un’altra giornata durissima da affrontare.
Come tutte le mattine si incammina per raggiungere i terreni oltre i confini del centro abitato.
Una strana sensazione lo attanaglia. Pare stesse vivendo ogni attimo di quel sogno, ma era sveglio, nella realtà, quella da affrontare tutti i giorni.
Attraversa l’l’àrië dë Mënghìllë, raggiunge Santa Maria, e si incammina nel sentiero che porta allu Pòndë du Zëccawuìë.
A pochi metri di distanza dal varco si ferma incredulo.
Non gli par vero ma della terra da poco rimossa, panciuta, attira la sua attenzione e lo invita a scavare.
Estrae un grosso e pesante recipiente di terracotta. Lo spacca. Meraviglia!
Nello stesso istante passa di lì una donna. La conosce, è del paese.
“Buongionë Cëccì” lo saluta.
“Che stætë facènnë assëgnërië?” gli chiede.
“Fàttë i fàttë tòië” risponde con volto rabbuiato.
“Fàzzë quìllë ca më pærë” chiude bruscamente.
D‘un tratto il suo volto torna ad essere incredulo, peggio che al risveglio.
Tra le mani non ha più nessun prezioso di quel monile appena scoperto, ma solo cenere, e mentre la disperazione lo assale, Rosina, meravigliata dalla sua arroganza, si incamminava e fa ritorno al paese.

È una zona particolare Santa Maria.
È un lembo di terra racchiuso tra la Vallina, Santa Lucia e San Pasquale, ed oggi parte integrante della nuova e tanto discussa zona del paese.
A caratterizzarla è il massiccio e antico Pòndë du Zëccawuìë, traducibile quasi certamente con Zaccaria.
I tesori lì scoperti testimoniano l’antichità della nostra storia, e mi hanno permesso di non utilizzare la parola leggenda in quanto, quella appena letta, è una storia vera vissuta da un nostro paesano, e da quella donna di passaggio dei quali ho omesso solamente i nomi, per rispetto alla riservatezza.
Inoltre, ci insegna anche un’altra lezione: siamo sicuri che il detto “Nòn dæ rèttë a suònnë” abbia ancora valenza?

Il ponte con la neve.
Foto Stefano Sarubbi

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Il 1924 e l'indegna memoria ai Caduti

di G.D. Amendolara
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Storia inserita in archivio > Storie Chiaromontesi

Questa che state per leggere è una storia esclusiva di
Chiaromonte e le sue Storie.
Contiene notizie e foto inedite.


Chiaromonte, anni 30, e la lapide ai Caduti
affissa sul portone principale della Chiesa Madre
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1918

La guerra, la Grande Guerra era finita.
La firma dell’armistizio donò un sospiro di sollievo ai Chiaromontesi, alleggerì i loro animi appesantiti da quelle quaranta vite perdute e che mai più tornarono alle loro case.
Gioiosi, “Miracolo” urlarono molti di loro per le grazie accolte dalla Madonna portata in processione qualche settimana prima, inconsapevoli che di lì a poco tante cose sarebbero cambiate.
Una nuova guerra era da combattere, e questa volta tra le mura di casa.

Processione della Madonna della Pace,
proclamata Santa Protettrice di Chiaromonte
il 1920

1920

Chiaromonte si vestiva a festa per proclamare la sua Santa Protettrice: La Madonna della Pace.
Impressionante la partecipazione dei Chiaromontesi che, con gli emigrati, contribuirono soprattutto economicamente all’organizzazione di quella che fu quasi certamente la più grande festa della nostra storia.
Cassa armonica, concerto bandistico, la fiera, la processione, migliaia di fedeli, i colpi scuri e, guardinghi, tanti volti infastiditi da quell’entusiasmo.
Era il 1920.
Due anni trascorsero dalla fine della guerra, e il silenzio e la dimenticanza verso il sacrificio dei caduti da parte delle istituzioni e anche del paese, rimbombavano ancor più che le bombe sui campi di battaglia, un comportamento ignobile sino ad allora taciuto ma non inosservato.

Scolaresca e fascisti in piazza Garibaldi

1923

Il fascismo impose il suo dominio anche su Chiaromonte.
Non potendo altrimenti, la longeva amministrazione Breglia si avviò verso le dimissioni, rassegnandole però solo dopo aver esaudito il desiderio dei Chiaromontesi.
In quella che fu la loro ultima seduta consiliare, a metà del 1923, deliberarono la commissione di una lapide commemorativa ai caduti della Grande Guerra, archiviata, però, per un “errore procedurale” contemporaneamente allo scioglimento del comune.

1924

Chiaromonte divenne fascista.
Solo una voce, tra tante messe a tacere, venne ascoltata.
Decantatori della Madre Patria e dei suoi eroi, ripresero in mano la delibera archiviata, la “sistemarono”, la approvarono, commissionarono la lapide e nel contempo scatenarono le ire dell’arciprete Pozzi, contrariato dalla decisione del sindaco di installarla sul portone principale della Chiesa Madre e non sulla facciata del campanile come accordato, solo per accontentare il desiderio di qualche Chiaromontese.
Passati sei anni dalla fine della guerra, Chiaromonte ebbe e accolse con freddezza la tanto desiderata memoria ai caduti.

La tanto contestata lapide
installata il 1924, e ancora oggi presente
sulla facciata del campanile della Chiesa Madre

CHIAROMONTE
Al culto dei posteri tramanda
il nome dei suoi eroici figli
che per la patria libera ed immortale
la vita immolarono


Approfittando della situazione imbarazzante tornarono i Chiaromontesi messi a tacere.

[…] Per il loro «Dovere» tutto hanno dato, in silenzio, e noi troppo presto abbiamo dimenticato il loro sacrificio.
[…]Se dobbiamo onorare degnamente i nostri morti dovremmo ricordarli con un monumento degno di tal nome, e non con qualcosa di indefinibile o sconciamente mostruoso…
[…] Si spendono migliaia di lire all’anno, «si bruciano» migliaia di lire in onore dei santi per conservare un’antica balorda tradizione che non sappiamo quanto vada a genio ai santi stessi che si vedono onorati col «culto del rumore…

Da La Basilicata nel Mondo – 1924

Guidati da Arnaldo Spaltro e Antonio Ricci puntarono il dito contro tutti, Comune, Chiesa, emigrati e paesani, capaci di organizzare e raccogliere soldi per le feste patronali ma dimentichi di coloro che pagarono con la vita il caro prezzo della libertà.

Gaetano Cetta (a sinistra) e Arnaldo Spaltro (a destra)
due dei tre fautori del Monumento ai Caduti

Chiamati in causa, gli emigrati risposero prontamente.
Gaetano Cetta se ne fece portavoce invitando i paesani a donare ai caduti un monumento degno di portare tale nome.
In paese colsero al volo l’invito di Cetta e, sempre sotto suo consiglio, organizzarono “un comitato che dovesse valere e dare l’appoggio morale dell’iniziativa in modo da dare sicuro affidamento di serietà ai chiaromontesi emigrati”.

COMITATO DI CHIAROMONTE
per il monumento ai caduti

Avv. Emmanuele Allegretti – presidente
Antonio Ricci
Arnaldo Spaltro
Comm. Serafino Ricci
Dott. Francesco De Nigris
Avv. Enrico Anelli
Dott. Riccardo D’Amelio
Ins. Antonio Lauria

All’appello lanciato da Cetta e dal Comitato risposero in massa Chiaromontesi, emigrati, soprattutto la folta comunità presente in Buenos Aires e anche il Comune, raccogliendo nel giro di un anno migliaia di lire.
Era fatta!
Con spirito guerrigliero, di sacrificio, appartenenza e, visto il periodo, anche tanta paura, ottennero ciò che tanto desideravano, e avviarono le pratiche per la realizzazione di un monumento ai caduti degno di essere chiamato tale.

Ai nostri Eroi
Caduti nella Grande Guerra
per la Patria e la nostra libertà

Ten. Allegretti Giovanni Battista
Ten. Santomartino Leonardo
Sold. Armenti Giovanni
Armenti Domenico
Arbia Pasquale
Amendolara Giuseppe
Amendolara Raffaele
Cersosimo Luigi
Ciancio Egidio
Ciancio Vincenzo
Ciancio Egidio Antonio
Cosentino Antonio
De Palma Amntonio
De Palma Domenico
De Salvo Antonio
Donato Emidio
Donato Paolo
Figundio Vincenzo Andrea
Guglielmelli Nicola
Grandinetti Nicola
Grandinetti Raffaele
Guarino Andrea
Guarino Nicola
Grossi Luigi
Landi Antonio
Laruina Domenico
Lista Giovanni Antonio
Lista Vincenzo
Maltese Nicola
Marsico Giuseppe Maria
Marsico Nicola
Pangaro Giuseppe Vincenzo
Rosato Giuseppe
Sergio Arcangelo Raffaele
Sergio Giovanni
Santomartino Raffaele
Stigliano Egidio
Viola Andrea
Viola Raffaele
Vozzi Domenico


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Fonti

Chiaromonte, economia amministrazione pubblica, cultura. Elefante, 1989

Internet Culturale

Archivio storico personale
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Storie correlate




Tenente Giovanni Allegretti, un eroe Chiaromontese



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Tenente Giovanni Allegretti, l'eroe Chiaromontese




"Un ricordo estrapolato da un articolo di giornale del tempo
che riguarda il mai dimenticato Zio Giovanni di Chiaromonte in provincia di Potenza. 
Riposa in una Cappella a Chiaramonte"

Armando Plantulli
pronipote di Giovanni Allegretti

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IN MEMORIA DI UN EROE DI CHIAROMONTE

"Chiaromonte. Giovanni Allegretti, a cui questo capoluogo è orgoglioso aver dato i natali, giovane di grande ingegno e gran cuore, e dall’animo aperto a tutte le idee generose, fu uno dei primi, che, al momento della dichiarazione della guerra, lasciati gli sudi diletti, entrò nella scuola di Modena.
Nominato sottotenente e destinato al 29° Fanteria, fu inviato al fronte, e prese parte ai primi combattimenti. Ed ecco che si fece subito notare, per il suo coraggio e per il suo senno, animati dall’alto sentimento del dovere e il vivo spirito di sacrificio.
Promosso per merito di guerra, raggiunse, appena ventiquattrenne, il grado di Capitano, e fu insignito di varie decorazioni, a causa degli atti e delle ferite riportate sul campo di battaglia, ove alfine incontrò gloriosa morte nei pressi di Monfalcone il 9 Ottobre 1916. Ond’è che per le sue alte virtù egli seppe meritare il titolo di Eroe, e la cittadinanza che ha nobilissime tradizioni patriottiche, scolpì, a grandi caratteri, il suo nome sulla base granitica del nostro monumento ai Caduti di questa nostra terra, che si immolarono nella grande guerra di Redenzione Italiana.
Oltre ciò di questi giorni per lodevole iniziativa dell’Onorevole Arduino Severini, delle autorità scolastiche di Melfi, e del professor Rispoli, Preside di quell’Istituto Tecnico, ove Giovanni Allegretti fu tra i più distinti studenti, si è intitolato al nostro eroico concittadino l’aula di Fisica di quel Collegio, apponendovi una grande fotografia dell’estinto.
Il nobile atto votivo, che tanto onora le autorità di Melfi è stato appreso con ammirazione e riconoscenza verso di loro e con vivo e rinnovato compianto per l’estinto."
Ecco i dati del Soldato:

Allegretti Giovanni Battista di Lodovico
Albo d'Oro Basilicata - (Vol III)
Nato l'8 aprile 1893 a Chiaromonte,
Provincia di Potenza, Regione Basilicata

Tenente appartenente al 9° Reggimento Fanteria,
Brigata Regina, Distretto Militare di Potenza

Morto il 9 Ottobre 1916 a Lokvica per ferite riportate in combattimento

Loquizza o Loquizza Seghetti (in sloveno Lokvica), è un paese della Slovenia, frazione del comune di Merna-Castagnevizza. L'appellativo doppio in lingua italiana era dovuto alla presenza dell'agglomerato di Segeti (in italiano in passato Seghetti) a 550 metri a sud-est di Loquizza.
Durante il dominio asburgico Loquitza (Lokvica) fu frazione del comune di Oppacchiasella (Opatje Selo)
Le alture che circondano Loquizza (oltre al Colle Grande, soprattutto il Pecinca, furono d'importanza strategica durante la prima guerra mondiale. La posizione di Loquizza subì, durante il conflitto, numerosi cambiamenti. Dal maggio del 1915 (inizio della guerra) fino all'agosto 1916 (presa di Gorizia), Loquizza appartenne alle retrovie austro-ungariche. Dall'agosto 1916 al novembre dello stesso anno, il paese venne attraversato dalla linea del fronte che si era lentamente spostata dal Vallone verso Loquizza. Dal novembre 1916 (sfondamento sul lato nord dell'altopiano) fino all'ottobre 1917 (ritirata delle truppe italiane), la zona di Loquizza faceva parte delle retrovie italiane.
Nel 1920, in seguito alla prima guerra mondiale e al Trattato di Rapallo, passò al Regno d'Italia, rimanendo inquadrata nel comune di Opacchiasella. In seguito alla seconda guerra mondiale e al Trattato di Parigi, passò alla Jugoslavia. Dal 1991 fa parte della Slovenia.
"Dopo una breve sosta in zona di riposo la brigata, dal gennaio al marzo 1916, alternò i suoi reggimenti nelle trincee del “Bosco Lancia” e riprese la sua attività guerresca, che si protrasse per tutto l’anno con esemplare spirito aggressivo.
Durante la 5a battaglia dell’Isonzo, il 13 marzo elementi scelti del II battaglione del 9° diedero l'assalto al Ridottino di q. 171 e l’occuparono con la cattura di circa un centinaio di prigionieri; il 13 e il 14 fu il III battaglione del 10° che, sostituito nella posizione conquistata il precedente battaglione, rintuzzò e frustrò i primi contrattacchi nemici. Senonché alle ore 22 del 14 l’avversario ne sferrò un altro assai più vigoroso, tempestò la trincea con rabbioso tiro di artiglieria, lanciò gas lacrimogeni e costrinse i difensori a cedere. Il giorno seguente il III battaglione del 9° tentò indarno di riconquistare il Ridottino.
In seguito i reggimenti si avvicendarono in trincea nello stesso settore e, tranne qualche piccola azione offensiva di carattere locale, tendente a saggiare i nemico, non si registrarono avvenimenti notevoli fino al 29 giugno, giorno memorando nei fasti dei fanti della Regina, sorpresi dagli effetti letali dei gas asfissianti, nuovo inumano mezzo di lotta esperimentato dal nemico.
Preparato da lunga pezza, con meticolosa cura, l’azione coi gas venefici mirava a ricacciare i nostri soldati oltre l'Isonzo e a liberare il nemico dalla nostra continua e crescente pressione. I gas velenosi furono lanciati improvvisamente poco dopo le ore 5 del 29 da appositi recipienti installati nelle trincee. Il settore della 21a divisione (S. Martino-q. 164) tenuto dalle brigate Pisa e Regina, venne investito in pieno; la densa nube bianco-giallognola di straordinaria potenza venefica, avanzando superò il rialto del Cappuccio e di q. 194 (ridotto “Regina”), discese ed invase le bassure, le conche, il bosco triangolare, il bosco Lancia e dilagò giù verso l’Isonzo e Sagrado, seminando nella sua micidiale corsa la strage e la morte. La prima difesa nella zona della 21a divisione fu opposta dal 10° fanteria, il quale ebbe in linea il I e III battaglione. Il comandante del reggimento ed il comandante della brigata accorsero subito verso la prima linea, sospingendo e rianimando gli uomini che storditi e attossicati retrocessero: questo pronto intervento rese possibile una prima difesa nel settore Regina (q. 194) nel quale l’avanzata del nemico venne contenuta.
La prima ondata avversaria era infatti venuta avanti, e, procedendo a piccolissimi gruppi, aveva già occupato tutta la prima trincea seminata di uomini svenuti incapaci di ogni reazione. La seconda ondata spinse la prima: pattuglie nemiche scesero audaci per i camminamenti e, imbaldanzite dal primo successo, si avventurarono più oltre: ma non fecero più ritorno. Superato infatti il primo momento di sbigottimento gli intrepidi fanti corsero alle difese. Le pattuglie italiane aggirarono i nuclei nemici; la pressione si fece a poco a poco più incalzante; su tutti i settori i nostri riattaccarono e premettero sui fianchi e alle spalle gli invasori. Dopo accanita lotta, questi isolati, disorientati, avviliti, uno alla volta, cedettero le armi.
Il comandante del 10° fanteria personalmente guidando al contrattacco i resti del suo reggimento e i rincalzi che il comando di brigata gli inviò tempestivamente, rioccupò, così la prima linea e, ristabilita la situazione sul suo settore, tenne in iscacco il nemico anche in quello contiguo della brigata Pisa, finché, sopravvenute altre truppe, l'avversario fu definitivamente respinto.
Le perdite inflitte al 10° fanteria nella calamitosa, ma gloriosa giornata, furono assai gravi e in massima parte dovute all’azione venefica dei gas:
Ufficiali : morti 34 - feriti 14
Truppa: id. 1286 - id. 162 - dispersi 170
Per le prove di valore ed ardimento date dalle truppe in questa azione e durante gli attacchi del 1915 e del marzo del 16, per cui i reggimenti della brigata “resero col loro sangue sacro alla Patria il M. S. Michele e le sue balze” fu concessa alle loro Bandiere la medaglia d’Oro al Valor Militare.
Riprese le operazioni sulla fronte della 3° Armata la brigata Regina, che presidiava col 9° le trincee ove aveva subito l'ecatombe dei gas, partecipò alla 6° Battaglia dell’Isonzo (6-17 agosto), anche col 10° ricostituitosi in meno d’un mese. All'inizio fece solo azioni dimostrative. Ma nella notte sul 10 agosto strappò al nemico le trincee dello Sperone e del Fortino e, in seguito alla conquista totale della testa di ponte di Gorizia e delle quattro cime del S. Michele, essa si lanciò all’inseguimento con l’ordine di avanzare senz’altro sulla fronte Vizintini-Devetaki. Il giorno 12 conquistò Oppacchiasella, sul ciglio opposto del Vallone, nonostante il vivo fuoco dell’artiglieria avversaria.
Dopo un brevissimo periodo di riordinamento, il giorno 29 fu ricondotta in linea nel settore di Oppacchiasella.
Il 13 settembre 1916 la Brigata Regina si riunì nei pressi di Devetaki per prendere parte, insieme alla brigata Pisa, alla 7a battaglia (14-18 settembre), nella quale fu ad esse assegnato come obbiettivo l’avvolgimento delle posizioni di Lokvica e la conquista del Pecinka.
Il 14, all’inizio delle operazioni, la Regina fu schierata per ala a cavallo della rotabile q. 87-q. 187, in riserva; il 15 entrò in azione senza per altro impegnarsi a fondo; il 16 insieme a reparti della brigata Pisa, alcune compagnie del 9° riuscirono ad oltrepassare i reticolati e a raggiungere le trincee nemiche, sulle quali gli avversari opposero una fiera resistenza, che non poté essere superata.
L’attacco venne rinnovato il 17. Mentre reparti del 10° tentarono invano di vincere la resistenza avversaria, il III battaglione del 9° con un brillante assalto, conquistò la trincea entro la quale, il nemico riavutosi dalla sorpresa della fulminea irruzione, li tempestò con vivo lancio di bombe a mano. Due compagnie del I battaglione, guidate dallo stesso comandante del reggimento, che era stato l’anima di tutto l’attacco, cercarono di portare in tempo aiuto al III battaglione, che ripetutamente contrattaccato dall’avversario, fu costretto ad abbandonare la trincea conquistata e tenuta per oltre due ore. Né il suo ripiegamento poté essere arrestato dalle compagnie del I battaglione, le quali, scosse dalla perdita del colonnello Stennio (medaglia d’Oro) caduto gloriosamente sul campo, ripiegarono anch’esse.
Il tentativo, che nella sola giornata del 17 costò al 9° reggimento 583 perdite delle quali 19 ufficiali, venne ritentato nell'8° battaglia dell’Isonzo (9-12 ottobre) da tutta la brigata, rimasta ininterrottamente in linea. Le posizioni di Lokvica vennero investite con grande slancio e la prima linea nemica, nel pressi del villaggio omonimo, fu occupata dai nostri il 10 ottobre, primo giorno di lotta. Il successo però non fu duraturo, poiché prima di sera l'avversario contrattaccò con forze soverchianti e costrinse i reparti della Regina, dopo lunga e disperata lotta, a ripiegare sulle trincee di partenza; né i rinnovati attacchi del giorno seguente fruttarono ai nostri alcun altro vantaggio.
Fu durante quei furiosi combattimenti che, il 9 ottobre 1916, cadde eroicamente sul campo il Tenente Giovanni Allegretti
Il 20 ottobre, la brigata Regina, lasciato il Carso così abbondantemente bagnato del sangue dei suoi prodi, raggiunse il settore But-Degano (Zona Carnia) alla dipendenza della 26a divisione.

PER NON DIMENTICARE

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I sàrtë

di Pinuccio Armenti
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Storia inserita in archivio > Chiaromontesi raccontano

nota: in questa storia non ho apportato alcuna correzione nelle parole in dialetto, e tantomeno nel modo di scrivere.
Pinuccio manca dal paese da sessant'anni, gli stessi in cui vive in Germania, e desidero che tutti voi siate testimoni del suo amore immutato verso il nostro paese, il più bello del mondo.

A Pinuccio Armenti,
autore di questa storia
ultima tra le tante raccontate
prima della sua improvvisa scomparsa.
In suo ricordo

G.D. Amendolara
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Scuola per sarti. Anni 60.
A sinistra Antonio Cafaro. Al manichino Giovanni Ricciardi.
Alle macchine, dall'alto in basso: Raffaele Fittipaldi, Antonio De Salvo,
Vincenzo Viola.
Foto: Giovanna Scardaccione

Carissimi compaesani,
dopo una breve pausa estiva voglio parlarvi di un altro mestiere che nel nostro paese non c'è più: Il Sarto. 
Chi ha la ottantina come me, o di più, dovrebbe ricordarsi quanti sarti c'erano a Chiaromonte. Non solo sarti ma anche molte sarte.
Ma andiamo con ordine.
Francesco Chiorazzi.
Foto di Giovanni Chiorazzi
Negli anni fine 40, poi negli anni 50 e inizi del 60, ricordo veramente tanti sarti a Chiaromonte.
La metà degli anni50 avevo 9-10 anni. Quello più anziano che ricordo era Francesco Chiorazzi che tutti chiamavamo Francisc Tarraren.
Allora la gente si conosceva più con i soprannomi che con i cognomi, anche perchè c'erano tanti cognomi uguali.
Un altro anziano era Alfredo Murro, meglio conosciuto come Alfred Chiappariell, papà di Attilio. Mentre FranciscTarraren aveva la sua sartoria sotto a ches di Maria Leone, Alfred Chiappariell non ricordo se avesse a putega o lavorava in casa. Questo forse potete chiederlo ad Attilio o se c'è qualcuno che si ricorda può scrivere pure lui qualcosa.
FranciscTarraren avia a puteg chiena di discibuwe. Jerene almen na dicine.
Perdonatemi se non li ricordo tutti, ma jere nu guagniniell.
Due però li ricordo. Uno era Giovanni D'Alessandro che abitava ndu Merchet. Era il più grande. Poi mi ricordo anche Emanuele Galgano, figlio di Trisin a Pignater. Era un nipote du Mastre. Però poi ,fatto più grande se ne andò in Polizia e si trasferì a Caserta.
Quando poi FranciscTarraren, anche lui andò via da Chiromonte, metà degli anni50, Giovanni D'Alessandro che aveva finito di imparare il mestiere aprì la sua sartoria sotto aches di Mast Jenner da zoppa e allu lete avia a puteg Umbert Landi ca facia u Barbier.
Giovanni D'Alessandro aveva imparato bene il mestiere e subito si riempì la piccola putighella di discibuwe.
Giovanni Viviano, l'ultimo sarto
della vecchia scuola
Umberto Dottore, Giuannuzz Viviano, Mario Percoco, Alfredo Tombuw se non sbaglio Sergio di cognome . Dopo un annetto Giovanni D'Alessandro se ne andò a Torino dove ci rimase per sempre.
Allora i sarti avevano molto lavoro.
Chiaromonte aveva allora 4 o 5 mila abitanti, e tutti si dovevano vestire.
Ancora non esistevano negozi di abbigliamento, quindi tutti andavano dai sarti.
Cappotti, ģiacche, giacconi, gilè, pantaloni corti , lunghi, alla zuava, non so se giovani di oggi li hanno mai visti e naturalmente vestiti completi per gli sposalizi o per i giorni festivi. Vestiti pantalone e giacca, e si usavano molto i gilè.
Poi Vestiti a doppio petto molto eleganti, e naturalmente si cucivano anche camice, bianche, colorate, maniche lunghe, maniche corte. Insomma, c'era un bel da fare.
I prezzi non ve li so dire perchè non li ricordo più. Me ne veg chiu o meno all'abbc.
Pantaloni 4 o 5 mila lire. Vestito completo dalle 20-25 mila lire . Doppio petto forse 30 mila.
Pensate erano tutti su misura.
Raffaele "Filuccio" Manzo.
Il primo sarto a vendere anche
abiti confezionati
Oggi giorno un vestito su misura a volte ti costa 4 o 5 mila euro e anche di più.
Negli anni 60 venne il grande exsodus. Tutti volevano emigrare.
Umberto Dottore se ne andò in Toscana. Mario Percoco a Torino, e Giuannuzz Viviano restò fedele a Chiaromonte.
Anche qualche altro però voleva diventare sarto.
Io ricordo Luigi Cuccarese, u figlie di Mast Jenner da zoppa, Amedeo Percoco fratello di Mario e Giuannuzz Ricciardi u figlie di Gidie u furger.
Mi sono ricordato che c'era anche Faluzz Ferrara u figli di Luigi u cucchiere e Faluzz Manzo che poi negli anni 60 fu il primo ad aprire un negozio di abbigliamento dove vendeva vestiti già confezionati.


Una delle scuole per sarte.

Anche le donne dovevano vestirsi a quei tempi, mica potevano andare dai sarti maschi.
Quindi c'erano anche molte sarte.
Comincio da mia zia Ester, non perché era mia zia e senza sminuire le altre, ma forse era la piu' brava.
Per le donne era l'unico mestiere o lavoro che si poteva trovare a Chiaromonte.
Oltre mia zia c'erano le sorelle Curcio o Curci, Concettina, Rosina e Minuccella.
Poi Ndunetta Ronga che veniva da Noepoli però era sposata con Giovanni Ronga u furger. Poi ancora la moglie di Liberino Guerra che mi sfugge il nome. Di soprannome a chiamaven a cicalielle.
Mi ricordo che un sacco di signorinelle volevano imparare a cucire, anche se poi non diventavano sarte ma almeno sapevano tenere un ago in mano.
C'erano anche ricamatrici, ma quello era un altro mestiere.
Anche le sarte avevano tanto lavoro.
Le nostre signore e le nostre signorinelle avevano i loro gusti, volevano essere belle ed eleganti.
Non faccio nomi perchè non sarebbe bello, però la domenica ,quando uscivano dalla Chiesa, dopo a messa di Signur che incominciava alle11e finiva alle 12, le nostre Signore o signorine avevano un’eleganza e tanta classe da vendere.
A noi maschietti luccicavano gli occhi. Eravamo molto riconoscenti alle nostre sarte che si inventavano sempre qualcosa di nuovo. Gonne, camicette, bluse, pantaloni. Allora andavano molto di moda i taier, non so se si scrive cosi, però voi avete già capito di cosa parlo. Anche la biancheria intima cucivano, ma i loro capolavori erano gli abiti sposa, sempre uno diverso da l'altro e sempre uno più bello dell'altro.
A quei tempi non c'era la convivenza. Allora ci si doveva sposare.
Peccato che adesso tutti questi mestieri non esistono più.
Allora quasi tutti lavoravano e il nostro paese fioriva. La lira incominciava a vedersi di più.
Poi, con l'arrivo del palazzo degli Uffici tutto si incrementò al meglio ed era proprio bello vivere a Chiaromonte.


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Il Palazzo degli Uffici

Di G.D. Amendolara
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Storia inserita in archivio > Chiaromonte

Questa che state per leggere, è un esclusiva di
Chiaromonte e le sue Storie


Il Palazzo degli Uffici sullo sfondo, in una panoramica di
Chiaromonte di fine anni 50 

Chiaromonte, 1884.
Archiviata “l’epoca nobile” la classe politica rese il paese punto strategico istituzionale di tutto il circondario, e riunire in un’unica sede tutti gli enti, compresa la Casa Comunale, divenne priorità degli amministratori dell’epoca.
Sprovvisti di un edificio abbastanza ampio per ospitarli (escludendo ovviamente il palazzo vescovile e il castello) commissionarono un progetto ad un certo ingegner Pisani che approvarono solamente nel 1915 grazie all’amministrazione Breglia che stanziò anche i primi proventi, ma lo scoppio della prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo lo riportarono nuovamente in archivio.
Chiaromonte, anni 30

allu Mùrë da Pòrtë, anni 50
Il secondo dopoguerra confermò il nostro paese quale punto strategico istituzionale del circondario.
Agli enti già presenti se ne aggiunsero altri, escluso il collegio elettorale passato definitivamente a Lagonegro.
La forte rappresentanza politica e le sue connessioni spinsero già la prima amministrazione guidata da Arturo Costanza a rispolverare quel progetto, e questa volta per realizzarlo.
Nonostante le dimissioni sia di Costanza che di Dolcetti (suo vice), le pratiche continuarono il proprio corso grazie al commissario prefettizio Alfredo Pizzo che, sostenitore anch’egli della realizzazione dell’opera, incaricò l’ingegnere Ferrari alla realizzazione di un nuovo progetto.
Approvato il progetto, tra i vari terreni a disposizione scelsero la scarpata tra il Palazzo Vescovile e la proprietà della famiglia Di Giura, l’unico che permetteva la costruzione della struttura, scatenando diverse polemiche tra i cittadini, sfavorevoli ad un cambiamento epocale di tale dimensione in una zona che conservava alcuni resti di una delle porte dell’antica cinta muraria, u Mùrë da Pòrtë.
Stanziati diversi milioni derivati soprattutto dal taglio dei boschi Magnano e Pollino, affidarono l’appalto ad una ditta forestiera specializzata in tecniche moderne costruttive che, coinvolgendo diversa manovalanza paesana, nel 1952 avviò i lavori e il primo cambiamento postbellico di Chiaromonte.
Inaugurazione del Palazzo degli Uffici.
Si notano Emilio Colombo a sinistra, il sindaco Sergio De Judicibus al centro
e mons. Alfredo Vozzi sulla destra.
Foto Edward C. Banfield. 1954

Dopo due anni ininterrotti di cantiere, nel 1954 alla presenza di uomini di Stato tra i quali l’allora deputato Emilio Colombo, militari di alto grado, Edward C. Banfield che immortalò il momento e mons. Alfredo Vozzi, il sindaco Sergio De Judicibus tagliò finalmente il nastro, consegnando alla cittadinanza e al circondario la prima struttura moderna in Lucania, e una delle prime in Italia del secondo dopoguerra: il Palazzo degli Uffici.

«Chiaromonte ha, inoltre, l’orgoglio, ed una sorta di bandiera che dalla collina su cui si adagia sventola su tutta la regione, di possedere un palazzo per tutti gli uffici: un palazzo imponente, moderno, il primo ed ancora il solo della Regione».
G.G. Lo Schiavo
presidente Corte d’appello Potenza

Le caratteristiche scale
all'interno del Palazzo degli Uffici.
Pino Sassano
Ad occhio più imponente del mastodontico Palazzo Vescovile, quel parallelepipedo di sei piani dalla struttura moderna, la tabella in metallo “Palazzo degli Uffici” affissa sul terrazzo centrale, i tre portoni giganti e le scale all’interno intrecciate come fossero un quadro di Escher, stupì non solo le autorità e il pubblico presenti ma anche i contrari, consapevoli di ritrovarsi di fronte ad un piccolo paradiso in un centro storico mal conservato e poco curato. 
L’edificazione del Palazzo degli Uffici apportò diversi miglioramenti soprattutto alla viabilità e ai collegamenti interni e verso gli altri paesi. Con l’ultimazione dei lavori si avviò la seconda fase di trasformazione di Chiaromonte, che nel giro di pochi anni portò al paese il plesso delle scuole elementari, l’ospedale a Santa Lucia, le scuole medie a San Pasquale e un nuovo carcere a San Rocco, nonché l’abbellimento di quello che sarebbe diventato il passeggio Chiaromontese, ovvero la strada che congiunge l’ospedale alla piazza, con lo zampillo¹ e la villa comunale oggi dedicata a Papà Giovanni Paolo II.

Sin dall’inaugurazione, oltre ai tre enti già citati, il Palazzo degli Uffici ha ospitato anche l’ufficio di registro, il catasto, l’esattoria, l’ufficio agricolo di zona e il centralino.
Contrariamente a quanto previsto l’unico ufficio escluso fu quello postale, che rimase nei pressi di piazza Garibaldi sino alla fine degli anni 80.
A metà degli anni 90, a seguito dei lavori di restauro, il Comune si trasferì all’ultimo piano nell’ex caserma dei carabinieri, mentre agli altri enti, purtroppo, toccò una sorte diversa.
Sin dalla fine degli anni 70 il tempo e tanti altri fattori remarono contro Chiaromonte.
Il trasferimento a Senise della tenenza dei Carabinieri nel 1986 ufficializzò il triste destino della rappresentanza istituzionale storica del nostro paese. Ad essa seguirono man mano tutti gli altri enti, e non solo quelli presenti nella struttura, trasferiti tra Senise, Sant’Arcangelo, Lagonegro e altri paesi. A resistere fu ed è solo il Giudice di Pace, ovvero, ciò che rimane della storica Pretura.


La nuova sala consiliare

Il Palazzo degli Uffici dagli inizi del 2000 è perlopiù occupato dal Comune.
Grazie ai lavori di restauro può vantare di una nuova sala consiliare e l’abbattimento totale delle barriere architettoniche grazie ad una rampa d’accesso in via Giovanni Di Giura e all’ascensore all’interno attivo dal 2007.
Negli anni, oltre gli enti già citati, è stato anche sede dell’ufficio di collocamento (prima nell’ex centralino, poi nell’ex cassa), dell’ufficiale sanitario, dello sportello Inps², dell’ufficio notarile³, una banca, altri enti, associazioni volontarie e dal 2023 nell’ex caserma è in funzione la biblioteca comunale…
Il Palazzo degli Uffici oggi

Si, la storia del Palazzo degli Uffici termina con i tre punti di sospensione perché non narra solamente di un edificio storico, ma soprattutto di una Chiaromonte forte, fiera, disposta a tutto, sulla bocca di tutti e invidiata, perché nulla aveva ed ha da invidiare a nessuno.

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2,3 - uffici ancora presenti
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Fonti

Chiaromonte - economia, amministrazione pubblica, cultura
di F. Elefante 1990

Archivio storico personale
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Leggi anche


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O Scarpærë - seconda parte

Di Pinuccio Armenti
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Storia inserita in archivio > Chiaromontesi raccontano


nota: in questa storia non ho apportato alcuna correzione nelle parole in dialetto, e tantomeno nel modo di scrivere.
Pinuccio manca dal paese da sessant'anni, gli stessi in cui vive in Germania, e desidero che tutti voi siate testimoni del suo amore immutato verso il nostro paese, il più bello del mondo.




Màstë Paolo “Ciuccëgnàgnë” Sassano.
Foto di Gianpaolo Reale

A quei tempi Chiaromonte aveva un 3500 abitanti, più tanta gente che abitava nelle campagne.
C'erano le scarpe per tutti i giorni e le scarpe per i giorni di festa. Poi quelle per andare in campagna e o scarpe pu viern.
Anguna puteghella ma ricord ancora.
Mio papà aveva la sua vicino a quella di Mast Paul u tict, di front u balcon da ches di don Franco Ferrara.
Pasquale Tombola avie 300 m chiù abbasc, per quelli più giovani, vicino il Mini Market di Mario Percoco, solo che a quei tempi c'era la sartoria di Egidio Ricciardi, nu fratello di Giovanni u portalettere.
Ndonio u Rimient, o Armenti, l'aveva sotto casa sua.
Umbert Pesce jere vicin a ches di Mast Jenner da zoppa che probabilmente prima c'era stato lui.
Poi le altre non le ricordo.
Il materiale come tomaie, suola, spago, pece , chiodi e tacce mio papà li comprava a Francavilla.
La tomaia era la cosa principale per una scarpa. Poteva essere in cuoio o in pelle. Il cuoio era per tutti i giorni. Quelle in pelle erano per le scarpe della festa. Poi c'erano le tomaie per le scarpe di campagna.
Non ricordo che materiale fosse. Però ricordo che dopo averle finite venivavo insivate.
Il sivo non so se è una parola italiana. Era un grasso che se non sbaglio veniva ricavato dal maiale dopo averlo ammazzato.
Per fare un paio di scarpe a quei tempi ci volevano almeno 9 o 10 ore.
Certo allora si faceva tutte a mano.
La tomaia, quella era già pronta. Veniva fatta in fabbrica.
La suola si comprava a pezzi, poi veniva tagliata in base alla grandezza della tomaia.
Si metteva per un giorno, a volte anche più, a bagno in acqua per ammorbidirla, cosi era più facile lavorarla. Tolta dall'acqua veniva battuta.
Mio papà aveva un arnese di ferro, una ventina di cm, a forma di triangolo. Lo metteva sul ginocchio, poi metteva la suola su questo arnese che non so se avesse un nome specifico, e con il martello cercava di ammorbidire la suola, tagliata su per giù alla misura della tomaia. Dalla suola erano stati tagliati anche due strisce che chiamavano u guardione, anche esse messe a bagno.
Erano molto importanti perché venivano cucite con spago impeciato fra suola e tomaia per mantenere il tutto.
Parecchie volte u guardione lo usava anche sulle mie gambe quando disubidivo.Bello bagnato com'era faceva un male infernale.
Poi ricordo un altro particolare.
C'erano dei clienti che volevano le loro scarpe "cu fruscio ".
Quando camminavano facevano un rumorino, però non chiedetemi il segreto du "fruscio".
Quelle scarpe erano più per le feste.
Per quelle di campagna e quelle invernali si usava una tomaia diversa, più alta.
Arrivava sopra all'osso spizzill.
La tomaia era di un materiale più robusto, e anche la suola era più spessa. Poi sotto venivano messe due, e a volte anche tre file di Taccie, per i più giovani, o taccie erano una specie di chiodi con la testa quadrata abbastanza robusti, e i mettevano per far resistere le scarpe più a lungo.
Era una scarpa per i contadini, perciò era uscito il detto “Contadino, scarpa grossa cervello fino”.
Gli arnesi, o i fierri come si diceva in dialetto, che usava u scarper non erano tanti.
Base prima era nu bancariell dove poter posare gli attrezzi, curtiell, martiell, tenaglia, diverse tipi di suglie (asole?), forme in legno ed in ferro.
Non vorrei sbagliarmi ma c'era qualcosa che si chiamava “u pede di puorco”, però non ricordo a cosa servisse.
Sono passati 70 anni, scusatemi se sbaglio qualcosa.
Il materiale, lo ripeto, tomaie, suola, gomma, spago, pece, dopo venne il mastice, chiodi, taccie e naturalmente una sedia. E poi ci serviva anche il talento du Mastr. Dovevi saper usare le mani con precisione se volevi un buon risultato.
Di lavoro ce n'era tanto. I calzolai lavoravano tutti.
La cosa non tanto bella era che a quei tempi non c'erano tanti soldi in giro. La gente aveva poco lavoro e a volte ci voleva tempo per racimolare i soldi per pagare le scarpe.
A volte si pagava in natura, con un paio di litri di olio, con della farina, con dei legumi e a volte anche con il vino. Oppure si diceva: Ue, Mast Giua, mitte a segne ca po ti peg. E così piano piano i calzolai incominciarono a diminuire.
Chi andò in Toscana, chi a Torino, chi cambio mestiere, chi mise un negozietto.
Mio papà se ne venne con me in Germania e ci restò per una quindicina di anni.
Màstë Pëppìnë “u scarpærë” Rëmièndë.
Foto di Giovanni Monaco
Quello che resistette fino in ultimo fu' Peppino u Rimiend. Lui fu il più intelligente di tutti . Lui le scarpe non le faceva più ma le vendeva. Ormai si potevano comprare già fatte.
Però non aveva abbandonato del tutto. Qualche mezza suola, qualche sopratacco o piccole riparazioni le faceva ancora.
Voglio finire cosi.
Mio papà dopo 15 anni di Germania, tornato a Chiaromonte, ormai pensionato, ritrovò la passione per il suo mestiere.
Prese in affitto quella putighella vicino la casa di Mast Jenner da zoppa, dove già avevano lavorato parecchi calzolai, rispolverò i suoi arnesi. U bancariell c'era ancora e ricomincio' ad aggiustare scarpe, non a farne nuove, solo riparazioni. Ora gli affari andavano a gonfie vele, anche perché erano solo in tre. Adesso non segnava più sul suo quaderno, adesso usava il metodo tedesco. Scarpe finite soldi alla mano.
I tempi erano migliorati e i soldi circolavano di più.
Peccato che dopo 3 anni ci lasciò per sempre.
Voglio scusarmi se ho dimenticato qualcuno ma allora erano veramente tanti i scarper al nostro paese, e sono passati 70 anni.
Scusate anche il mio stile di scrivere, forse a volte anche grammaticalmente non tanto corretto.
Col nostro dialetto non ho probemi, ma con l'italiano...


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O Scarpærë - prima parte

Di Pinuccio Armenti
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Storia inserita in archivio > Chiaromontesi raccontano


nota: in questa storia non ho apportato alcuna correzione nelle parole in dialetto, e tantomeno nel modo di scrivere.
Pinuccio manca dal paese da sessant'anni, gli stessi in cui vive in Germania, e desidero che tutti voi siate testimoni del suo amore immutato verso il nostro paese, il più bello del mondo.


Paolo Maltese “U Ticchëtë” con cappello panama,
uno dei calzolai storici, nonché noto personaggio


Cari compaesani,
dopo un po’ di pausa mi piacerebbe continuare a scrivere sui mestieri che ora al nostro paese non esistono più.
Questa volta vorrei scrivere dei calzolai, o Scarper in dialetto.
Vorrei partire da molto lontano, perché è il mestiere che ho vissuto più da vicino.
I miei nonni, che non ho avuto la fortuna di conoscere, erano i fratelli Francesco, detto Ciccillo, e Giuseppe Armenti ed erano Scarper.
Non voglio raccontare la storia della mia famiglia, ma questi sono i fatti.
Nonno Ciccillo andò via da Chiaromonte, si trasferì a Tursi dove fece il calzolaio tutta la vita. Si sposò, fece tre figli dei quali uno era mio papà.
Giovanni Amenti
padre di Pinuccio
Anche lui, mio papà, divenne calzolaio, perciò a Chiaromonte lo chiamavano Giuann u Tursiten, da non confondere cu Giuann du mbrone. Quello era un altro.
Nonno Giuseppe restò a Chiaromonte.
Per detto di mia nonna, lui a fatic a sparev. Detto in italiano, non aveva tanta voglia di lavorare. A lui piaceva divertirsi. Era l'amico di tutti. Cantava, suonava ed era un vero saltimbanco. Per lui era sempre Carnevale.
In poche parole faceva tutto, sule a fatic non ne cuzzev.
Mori' molto giovane.
Mio papà, ormai diventato giovanotto, veniva spesso a Chiaromonte a trovare la zia ed i cugini. Cosi si innamorò di sua cugina, mia mamma, e si sposarono.
Andarono ad abitare a Tursi dove tutti noi figli, fuori di Patrizia, venimmo al mondo.
Poi tornammo di nuovo tutti a Chiaromonte, io avevo 11 mesi.
Perciò mi sento Chiaromontese a tutti gli effetti.
Mio papà fece il calzolaio per tanto tempo ancora.
La finisco qui sennò parlo solo della mia famiglia.

A quei tempi a Chiaromonte c'erano veramente tanti Scarper.
Spero non me ne vorrete se ne dimentico qualcuno.
Il padre di tutti i calzolai si chiamava, o meglio, tutti lo chiamavano Paolone.
Io lo ricordo appena. Era alto e molto robusto.
Sua figlia se non ricordo male, la chiamavano Filumen a sciascion.
Era sposata con Gangiluzz Saponara, detto il dottore, perché faceva le siringe a tutta Chiaromonte.
Stu Paolone ebbe molti discibul.
Giovanni “Përdìgnë” Palazzo
Trasferitosi a Milano 
negli anni 60.
Foto Antonio Palazzo
Io ricordo solo Paolo suo nipote che ora abita a Roma o Villalba.
Anche Mast Jnner da zoppa, per detto di sua figlia, ha imparato li il mestiere.
C'era anche Giuann Pirdign, non ricordo il cognome, che poi emigrò in Sud America.
Anche un altro Giuann Pirdign, Palazzo se non sbaglio, e non so se erano parenti, era scarper, ed emigrò anche lui, ma in nord Italia con tutta la famiglia, e credo che anche un figlio continuò il mestiere del padre.
Certo non posso dirvi tutti gli anni precisi e l'ordine di età di scarpere che ho conosciuto Però, quelli che ricordo ve li posso nominare.
Ricordo Ndonio u Rimient, Pippin u Rimient e Luigi u Rimient, che se ne ando' a Torino. Ha la mia età.
Da non dimendicare Mast Paolo u tict.
Sapete i cognomi sono difficili da ricordare, se non sbaglio faceva di cognome Maltese. Mast Paolo faceva anche il barbiere, quindi esercitava tutti e due i mestieri.
Lui veniva dall'America e gli piaceva anche tanto la boxe.
Poi c'erano Giuann Cortazzi, conosciuto come Giuann da sciaffer, che poi andò a fare anche il sacrestano nella chiesa Madre di San Giovanni, e Pasquale Tombola, Umberto Pesce, Paolino Ciuccignagno.

Giuànnë “da sciàffërë” Cortazzi
con la sua famiglia

A me fa tanto piacere quando qualche amico del paese mi scrive e mi dice qualcosa che io non ricordavo o non sapevo.
Ieri mi ha scritto una persona e mi ha detto una cosa che non avevo mai sentito.
Le persone che ricordano Vincenzo Corradino saranno poche. però i figli Faluzzo, Nicola o Antonio se li ricordano tanti. Ebbene si, anche Vincenzo Corradino, prima di impiegarsi al Comune aveva fatto il calzolaio. E sarà stato anche uno dei più aziani.
Anche essendo grande amico dei figli, ed essendo un figlio di calzolaio, non lo sapevo. Negli anni 50 erano veramente tanti i scarper al nostro paese.
In tanti però lo consideravano un mestiere non tanto dignitoso, tanto è vero che quando qualcuno nominava u scarper, aggiungeva “parlann cu crianz”.
A quei tempi non esistevano scarpe che potevi comprare nei negozi come oggi, quindi, se non volevi camminare scalzo dovevi andare a du scarper...

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